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Farinél | 29 gennaio 2023, 11:08

FARINEL / “È accaduto, può accadere ancora”: il monito di Segre, le parole sempre vive di Renato Salvetti

La Giornata della Memoria è un momento di commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Un momento essenziale per non dimenticare gli orrori della Shoah, che voglio celebrare con un estratto della mia intervista realizzata nel 2015 all’ultimo reduce piemontese di Mauthausen

Renato Salvetti, doglianese, l’ultimo testimone oculare piemontese dei campi di concentramento. Si è spento all’età di 94 anni il 24 settembre 2019 non prima di aver prestato un'intensa attività di testimonianza nelle scuole di tutta la Granda

Renato Salvetti, doglianese, l’ultimo testimone oculare piemontese dei campi di concentramento. Si è spento all’età di 94 anni il 24 settembre 2019 non prima di aver prestato un'intensa attività di testimonianza nelle scuole di tutta la Granda

“È accaduto, può accadere ancora”, ci ricorda la senatrice Liliana Segre, una delle ultime testimoni dirette della Shoah.
Queste parole colpiscono e toccano perché, nel 2023, ci pare impossibile anche solo immaginare che l’orrore della Shoah possa ripetersi. Pare impossibile perché, come ci hanno sempre insegnato a scuola, “la storia è maestra”. La storia insegna a evolvere, a non commettere gli stessi errori del passato, ma solamente a una condizione: mantenere viva la memoria e non dimenticare ciò che abbiamo vissuto.

Finora ha funzionato solo nell’Europa occidentale perché altrove, purtroppo, genocidi e pulizie etniche non si sono arrestate dopo la Seconda Guerra mondiale.

Ma anche in Italia, nel cuore dell’Unione Europea, qualcosa scricchiola e la storia legata all’orrore della Shoah non sembra aver insegnato la stessa lezione a tutti: secondo un’indagine dell’Eurispes, infatti, se nel 2004 le persone che credevano che la Shoah non fosse mai avvenuta erano “solamente” il 2,7% della popolazione, nel 2020 quella percentuale è salita al 15,6%. Allo stesso tempo, il numero di persone che ridimensionano la portata della Shoah è passato negli stessi anni dall’11,1% al 16,1%. Dati estremamente preoccupanti.

Una drammatica storia, quella dell’Olocausto, che proprio alla luce di questi numeri non possiamo smettere di raccontare ai nostri contemporanei, ai nostri figli, ai nostri nipoti e alle future generazioni, nella speranza di allontanare la dolorosa premonizione della senatrice Segre e dei tanti testimoni che ogni 27 gennaio ci ricordano che la Shoah è stata un inferno che non è scontato che non si ripeta mai più.

Nel mio piccolo vorrei ricordare la tragedia dei campi di sterminio attraverso le parole di Renato Salvetti, l’ultimo testimone oculare piemontese dei campi di concentramento, spentosi all’età di 94 anni il 24 settembre del 2019.
Incontrai Renato nel febbraio del 2015: mi accolse nella sua casa di Dogliani mostrandomi il fazzoletto che riportava il suo numero identificativo, il 59.138.

“Neun und fünfzig tausend, hundert acht und dreißig”, più di settantanni non erano bastati per cancellare dalla mente di Renato come pronunciare il suo numero identificativo in tedesco.
Più di settant’anni non erano stati sufficienti a cancellare l’orrore che aveva vissuto nel campo di Mauthausen, ma ben trenta gli erano serviti per trovare la forza di raccontare al Mondo un dolore troppo grande per essere pronunciato.

«Nel 1975 per la prima volta ho parlato a mia moglie della deportazione al concentramento austriaco: fu come abbattere una diga e da quel giorno capii che il silenzio non serviva»: così Renato mi raccontò il momento in cui aveva capito di dover portare la propria testimonianza alle nuove generazioni.

Una missione di vita e un dovere per Renato Salvetti, che da quel giorno mai si sottratto al racconto del dolore della deportazione andando, prima di tutto, nelle scuole.
Un orrore che per Renato era iniziato alla vigilia di Natale del 1943, all’età di 19 anni, quando venne  catturato a San Giacomo di Roburent insieme a un gruppo di partigiani. Venne portato a Mondovì, poi a Cuneo e a Torino dove, dopo tre mesi di maltrattamenti, il 12 marzo 1944 venne stipato in un carro bestiame sul binario 19 di Porta Nuova. Otto giorni dopo, il 20 marzo, arrivò a Mauthausen.

«Mi hanno spogliato nella neve e picchiato per la prima volta. In seguito, mi hanno rasato. Era il marchio distintivo dei deportati di Mauthausen, la cosiddetta “autostrada”».

Non c’è tempo da perdere e Renato viene condotto nella cava della morte: «Si dovevano scendere 187 scalini e risalire con delle grosse pietre, continuamente colpiti dai kapo tedeschi. Una volta portate alla sommità, le pietre venivano lavorate e poi vendute. A metà salita, quella che veniva chiamata “La parete dei paracadutisti”: intorno a tre laghetti profondi circa quattro o cinque metri venivano condotti gruppi di venti persone che venivano gettate a morire annegate oppure finite da un colpo di pistola. I cadaveri venivano buttati sulla “carrozza azzurra” e portati via. C’erano cataste di morti, ogni giorno. Quelli che tentavano di fuggire venivano ripresi e appesi come animali, ai ganci da macellaio. Si moriva di stenti, di dolore, di disperazione, di diarrea. Ci svegliavano alle 4 e mezza, seguivano tre ore di appello e poi nella cava per dodici ore, fino a sera. C’era l’appello anche alla sera e venti minuti per ammazzare i pidocchi. Ogni pidocchio trovato: venti fustigate. Era una tortura continua. Si divertivano a vederci morire così».

Una routine tremenda a cui il ragazzo resiste solo pensando alla propria casa e alla mamma.

Il 27 gennaio l’Armata Rossa entra ad Auschwitz, ma quella che per molti diventa la data della liberazione per i prigionieri di Mauthausen è solo un giorno di morte, anzi negli ultimi mesi la situazione si aggrava ulteriormente perché i nazisti sono decisi a non lasciare testimoni.

Renato, insieme al suo numero identificativo e all’orrore vissuto nel campo, non poté dimenticare una data: il 5 maggio 1945, quando alle ore 17.15 si spalancarono i cancelli del campo di concentramento ed entrarono quattro camionette con soldati americani. Il ragazzo poté finalmente scappare in direzione di Linz.

«Entrai in uno zuccherificio e iniziai a mangiare zucchero come fossi un bambino» raccontava Salvetti, che all’uscita del campo di sterminio pesava solamente 29 kg.

Il 25 giugno, dopo alcuni giorni di quarantena, Renato rientrò ad Alba e scoprì che la madre era morta durante il bombardamento di Dogliani. Questo dolore, nonostante l’orrore della deportazione, fu sempre ricordato da Renato come il più grande della sua vita.

Una testimonianza, quella di Renato, insieme ai tanti racconti dei sopravvissuti ai campi di sterminio, che abbiamo il dovere di tramandare.
“È accaduto, può accadere ancora”: soltanto ricordando la storia possiamo fare in modo che non sia così. Il nostro compito è proprio questo: ricordare Renato, ricordare i tanti testimoni che se ne sono andati, per fare tutto quello che è in nostro potere perché quegli orrori non si ripetano mai più.

Marcello Pasquero

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