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Farinél | 14 luglio 2024, 11:13

Farinél / Il mio viaggio nel centro per bambini disabili di Ol’Kalou, dove i sorrisi prendono spazio alla sofferenza

Il nostro Farinél in missione in Kenya con l’urologo Bruno Frea ha incontrato le suore e gli insegnanti della struttura. L'amministratrice, suor Angelica: "Qui prendiamo i bambini che nessuno vuole e li ripariamo, fuori ma soprattutto dentro"

Farinél / Il mio viaggio nel centro per bambini disabili di Ol’Kalou, dove i sorrisi prendono spazio alla sofferenza

Ho provato nelle poche righe di un post su Instagram a raccontare le emozioni vissute nella giornata di venerdì nel centro per bambini con disabilità fisica di Ol’Kalou, ma una delle esperienze più toccanti della mia vita meritava e merita molto di più e per questo ho deciso di dedicarle il Farinél di questa settimana.

Il senso di Ol’Kalou è tutto nella frase di suor Angelica, l’amministratrice del centro: “Questo è il luogo in cui prendiamo i bambini guasti che nessuno vuole e li ripariamo, fuori, ma soprattutto dentro”.

Se la vita di un bambino con una disabilità fisica o psichica e della sua famiglia, in Italia, non è, sicuramente, rose e fiori, vi lascio immaginare cosa possa essere per un piccolo di uno dei paesi più poveri del Mondo: il Kenya, dove mi trovo in questi giorni in missione con l’urologo Bruno Frea.

La disabilità nel paese africano è un’onta, un bambino disabile è, appunto, un bambino “guasto” che le famiglie e le tribù non possono permettersi di riparare. Il bambino guasto si butta via, come fosse un oggetto e a raccoglierlo ci sono le suore Giuseppine di Ol’Kalou, una piccola città sugli altipiani del Kenya a un’ora di pulmino dall’ospedale di North Kinangop dove mi trovo in questi giorni.

Micheal, John, Vichi o Jeanna, alcuni dei bambini che ho conosciuto ieri sono gli ultimi tra gli ultimi in uno dei paesi più poveri del nostro pianeta. Se la catena alimentare comprendesse l’uomo, loro sarebbero all’ultimo posto, gli esseri di cui tutti si cibano, senza remore.

Ol’Kalou è la casa di 250 di questi bambini e ragazzi nati “sfortunati” e abbandonati da tutti. Qui vengono accolti, ospitati, cibati, da Marsello (immaginate le risate trovandosi di fronte il primo Marcello della sua vita), lo chef del centro che con amore prepara ogni giorno il cibo per gli ospiti e per i 100 bambini dell’asilo della città che crescono fianco a fianco con i loro coetanei disabili.

Le suore, 14, donne dalla straordinaria dolcezza, guidate da Angelica e Felicina li accolgono, li coccolano, come fossero le mamme perdute di ognuno di loro. In un’ala dell’enorme complesso una squadra di artigiani costruisce stampelle, sedie a rotelle su misura: «Abbiamo rinunciato a comprare i sostegni per la mobilità perché troppo costosi, gran parte dei bambini avrebbero dovuto aspettare anni e abbiamo iniziato a produrli in autonomia», mi spiega sister Felicina.

Negli stessi locali si producono scarpe e protesi su misura, artigianali, brutte, sgraziate, ma efficaci, fondamentali per dare una speranza di vita a bambini che l’avevano perduta. Guardando uno di quegli artigiani immagino Geppetto nell’atto di riparare il suo Pinocchio e gli occhi mi si annebbiano.

Succederà più volte durante la giornata in un misto di commozione e fastidio, sì fastidio, nei miei confronti, per tutte le volte in cui mi sono lamentato per qualche stupidaggine, per tutte le volte che non ho ringraziato per l’immensa fortuna di avere due gambe, due piedi, due mani, due braccia, di essere, in parole povere “un normale”, un termine terribile quanto efficace.

La salute fisica e mentale è il dono più grande che ci possa capitare anche se spesso lo dimentichiamo e diamo per scontato. Un luogo come Ol’Kalou rimette le cose a posto, ti riporta sulla terra.

Un luogo come Ol’Kalou ti fa sentire nudo di fronte a una bambina come Esta, una meravigliosa bambina con artrogriposi, immobilizzata dalla nascita e totalmente invalida, con un sorriso tra i più belli che abbia mai visto.

Esta, venerdì, ha sorriso più di quanto io sorrida in settimane intere, mi ha riempito di amore con i suoi ripetuti grazie per averla imboccata e averle fatto assaggiare un torroncino o per averle gonfiato un palloncino che ha fatto volare con la bocca e colpito con la testa.

Esta mi ha curato, mi ha fatto capire che le disabilità che ci portiamo dietro noi occidentali, accumulatori seriali, sempre alla ricerca di una felicità fatta di cose materiali, a volte può essere più grave e invalidante di quella fisica.

Mi ha curato anche Alan, un bellissimo bambino con due enormi protesi di alluminio che riflettono il sole, mal assemblate, vistose: «Hai visto che belle le mie gambe nuove? Brillano», mi ha detto il piccolo. Avevo capito nulla compatendolo per quelle due protesi. Le sue brillano, io non ho gambe che brillano.

Gli occhi si sono riempiti di lacrime tante volte venerdì, guardando Marc, un bambino focomelico meraviglioso, con braccia lunghe pochi centimetri tra i più bravi a lanciare i palloncini, vedendo il piccolo Aaron spingere una carrozzella più pesante di lui con sopra suo fratello Peter come se fossero uno l’appendice dell’altro.

A inizio giornata quella moltitudine di sedie a rotelle, di bastoni, protesi, stampelle, mi sembrava uscita da un inferno dantesco, al momento di andare via tra abbracci e sorrisi ho sentito di essere arrivato nel posto più vicino al Paradiso che avessi mai visto.

Marcello Pasquero

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