“Che sarà mai un po’ di acqua”, disse alla moglie per farsi coraggio e tranquillizzarla. Ma tanta acqua così, tanta acqua tutta insieme, Adriano Bonino non l’aveva mai vista. Viveva in una frazione sopra Clavesana, al sicuro. Asettava il pulmino che doveva riportare a casa la figlia. Un pulmino che non arrivava, da ore. Alla fine la decisione di partire con il figlio Giuseppe di 14 anni. “Che sarà mai un po’ di acqua, andiamo a cercarla e poi abbiamo il fuoristrada”.
Sarà l’ultima volta che la moglie Franca vedrà marito e figlio, verranno portati via dalla furia del fiume. Il corpo dell’adolescente sarà ritrovato solamente tre mesi più tardi. Nulla poterono le quattro ruote motrici quando sotto l’auto si squarciò la terra e il mezzo crollò in una voragine.
Riccardo Sobrino, per tutti Richi, di anni ne aveva solo cinque in quella maledetta notte tra il 5 e il 6 novembre 1994, quando corso Piera Cillario e la Ferrero finirono sotto il fango. Oggi sarebbe un ragazzone di poco più di 30 anni, ma oggi Richi non è, la furia delle acque lo ha portato via abbracciato all’amata nonna Anna Maria Magliano.
Sull’asse del Tanaro e dei suoi affluenti, nel solo comune di Alba, in poche centinaia di metri, morirono, oltre a Richi e Anna Maria, Caterina Giobergia e Felicita Bongiovanni, all’interno della casa di riposo Ottolenghi, i coniugi Daniele Vola e Daniela Mascarello, travolti nell’area della ditta Aimeri, Emiliano Rossano di Macellai, travolto dalla piena del Tanaro nella zona del ponte nuovo della tangenziale, i coniugi Carmine Iannone e Maria Di Paola di Nichelino, morti sulla tangenziale.
Il corpo di Emiliano Rossano sarà l’ultimo a essere ritrovato, il 26 marzo 1995. Avete idea di cosa voglia dire piangere una bara vuota per 141 giorni? Io per fortuna no.
Sono solo alcune delle 70 storie di vite portate via dal fiume, da Garessio fino ad Alessandria, dove ancora alle 13 di domenica 6 novembre si discuteva se far giocare la partita tra i grigi e il Bologna per il rischio di scontri con i tanti tifosi felsinei in arrivo nella città mandrogna. Quel giorno l’unico a entrare nello stadio Moccagatta è stato il Tanaro, e per fortuna, perché il prefetto rimarrà indeciso fino all’ultimo sull’opportunità del rinvio. Sarebbe potuta diventare una carneficina.
I tanto, oggi, vituperati cellulari, allora avrebbero salvato tante vite e se non fosse stato per i radioamatori che lanciarono gli allarmi il bilancio sarebbe stato ancor più tragico. Non è un caso che da questa esperienza sia partito con vigore lo slancio per la costituzione dei gruppi di protezione civile tra cui, tra i primi in Italia, Proteggere Insieme, ancora oggi in prima linea in ogni emergenza sul territorio nazionale e non solo.
Più forte della furia di acqua e fango ci fu solamente la forza di volontà di una zona che seppe rialzarsi in poche settimane facendo tesoro di quella tragedia e non è un caso, nemmeno, che nel 2017 gli argini, nei pressi del ponte Albertino, abbiamo resistito a una piena dalla portata doppia rispetto al 1994.
Quanto avvenne nelle ore successive all’alluvione ha del commovente. Gran parte del personale della Ferrero si presentò in quella massa informe di fango che era diventata la fabbrica del cioccolato, per cercare di salvare il salvabile e di ripartire nel minor tempo possibile con la produzione.
Persone vicine a Michele Ferrero raccontano che il grande imprenditore fosse sconsolato e qualcuno ventilò persino la possibilità di una chiusura dell’azienda.
Ma la fenice seppe risorgere non dalla cenere, bensì dal fango. Commossa dall’affetto dei collaboratori, la famiglia Ferrero si legò in modo indissolubile alla città di Alba, più di quanto già non lo fosse. Non è esagerato o inopportuno dire che l’alluvione del 1994 sia stato lo spartiacque nella storia di un’azienda e di una città che, toccato il fondo, seppero ripartire con grande slancio.
Ciò che avvenne in quel novembre del 1994 rimane ancora oggi nel cuore di tutte le persone che lo hanno vissuto. Rimangono lo strazio, ma anche la tenacia, la forza, la caparbietà di una zona che non si è pianta addosso nemmeno un minuto.
Personalmente conservo ricordi vividi, nonostante avessi solamente 12 anni. Ho in mente l’immagine di un fiume, che fino ad allora aveva sempre rappresentato una presenza rassicurante, diventare una massa informe, senza confini, un lago, un mare di fango, pronto a invadere tutto e a cancellare tutto. Ricordo, però, ancora meglio, i giorni passati con mio padre e mio zio nell’azienda Mondo di Gallo d’Alba a lavorare per ripulire i capannoni sommersi dalla furia delle acque.
Ero solo uno delle migliaia di volontari, nemmeno il più giovane. Persone che parlavano tutti i dialetti, partite nel cuore della notte. Persone che non avevano indugiato un secondo a salire sulla propria auto, a prendere ferie e a lasciare la tranquillità della propria casa per mettersi a disposizione del prossimo creando in molti casi dei legami saldi ancora oggi.
Questo è il primo ricordo che ho dell’alluvione del 1994, ancor prima del fango, delle lacrime, dell’angoscia. Ho impressa nella mente la solidarietà, la vicinanza, la voglia di ripartire, di non aspettarsi aiuti dall’alto, di non rassegnarsi all’ineluttabilità degli eventi, anzi.
Uno spirito che deve essere vivo oggi più che mai, in giorni in cui il fiume Tanaro vive una magra che non ha precedenti nella storia. I fiumi vanno rispettati e tenuti puliti, questo ci ha insegnato l’alluvione del 1994, questo non dobbiamo dimenticare.
Anche perché la fenice, fedele al proprio motto “Post fata resurgo", secondo Erodoto può risorgere solo ogni 500 anni. A buon intenditor.