L’intervista rilasciata a La Voce di Alba nei giorni scorsi dal presidente del Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, Sergio Germano, ha aperto un dibattito che Matteo Ascheri – alla guida dell'Ente dal 2018 al 2024 – non ha voluto lasciare in sospeso. Nel momento in cui Germano chiedeva di “investire di più nella comunicazione internazionale” e di “non rallentare” nelle politiche promozionali, Ascheri ha scelto di intervenire per mettere a fuoco, a suo dire, contraddizioni profonde: la struttura del Consorzio quasi azzerata, il licenziamento della responsabile comunicazione, le dimissioni del direttore, il tema della filiera che nessuno vuole affrontare, il prezzo dell’uva dimezzato. Ne nasce un’analisi che non concede sconti, dentro un confronto che tocca economia, politica consortile, assetti produttivi e scelte strategiche che hanno segnato l’ultimo anno.
Cosa l’ha spinta a intervenire dopo le parole del presidente Germano?
“Principalmente una cosa: il totale scollamento tra ciò che si dichiara e ciò che si fa. Se dici che bisogna ‘rafforzare la comunicazione internazionale’ e nello stesso tempo licenzi la responsabile della comunicazione, qualcosa non torna. Ricordiamoci che fino a qualche mese fa il Consorzio aveva cinque figure interne: un direttore, una responsabile comunicazione, una persona dedicata alla parte legislativa e tecnica, una figura amministrativa e una logistica. Oggi sono rimaste una segretaria, una figura tecnica e un dipendente che tra l’altro non parlano nemmeno l’inglese. È impossibile parlare di promozione senza avere la minima struttura per realizzarla. E non è solo un problema organizzativo: è un problema di visione. Perché, se togli gli strumenti, di fatto impedisci al Consorzio di svolgere la sua funzione.”
Lo ritiene, insomma, un messaggio incoerente con lo stato attuale delle cose.
“La promozione non si fa a parole. Richiede idee, competenze, continuità, mezzi. Quando ero presidente non mi limitavo a dire ‘bisogna promuovere’: organizzavamo convegni, affrontavamo temi complessi – dalla manodopera al cambiamento climatico – e costruivamo una narrazione forte, credibile, capace di dare peso ai vini e alle denominazioni. Per fare questo serve una struttura che lavori tutto l’anno, che sia capace di dialogare con buyer, giornalisti, istituzioni, opinion leader. Se il nuovo presidente dice che bisogna investire in comunicazione mentre ha smontato la macchina che se ne occupava, siamo davanti a una contraddizione enorme. E non è una questione personale, è una questione logica: non puoi dire ‘corriamo’ dopo aver tolto le ruote all’auto”.
C’è altro che non le torna?
“Il prezzo dell’uva che è crollato. Perché non è un dettaglio: è il sintomo di un problema strutturale. Se il settore va bene o comunque tiene – come viene raccontato – com’è possibile che in due anni il prezzo dell’uva si sia dimezzato? Il vino continua a posizionarsi, gli imbottigliamenti non crollano, il mercato regge. Eppure, l’uva vale la metà. Questo non succede per caso. Io lo dico da anni: c’è chi, nel sistema, ha interesse a comprimere il valore della materia prima. I grandi marchi non soffrono, anzi: più il sistema si indebolisce, più loro si rafforzano, perché il loro brand personale è più forte della denominazione collettiva. Altri attori hanno tutto l’interesse a mantenere costi bassi. È un conflitto interno al sistema, che nessuno vuole nominare. Ma è lì, ed è enorme.”
Sta dicendo che la filiera ha oggi tensioni che nessuno vuole portare alla luce?
“Sì, ed è qui che un Consorzio serio deve assumersi responsabilità. La filiera è spaccata: da una parte i produttori che fanno qualità e vorrebbero investire in comunicazione seria, dall’altra chi compra sfuso e punta solo al margine, e poi chi spinge per mantenere basso il prezzo dell’uva per salvare i propri bilanci. Sono meccanismi che conosco molto bene. Quando nel 2019 c’era chi si lamentava ritenendo il prezzo dell’uva ‘troppo alto’, capii che qualcosa non tornava. E infatti oggi siamo arrivati esattamente dove loro volevano arrivare. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.”
A cosa di riferisce?
“Intendo che durante i miei sei anni da presidente eravamo percepiti, nel panorama piemontese, come un’eccezione: indipendenti, autorevoli, capaci di affrontare anche i temi scomodi. Oggi non è più così. Siamo stati appiattiti sulle logiche di altre zone, riportati in un sistema dove prevalgono quantità, non valore. Ho usato una metafora forte: Hong Kong con la Cina. Perché è così che è andata. La nostra identità, il nostro modello di sviluppo – basato su qualità e valorizzazione – è stato schiacciato da una visione opposta. E togliere la struttura del Consorzio è stato il modo più rapido per cambiare direzione senza dirlo apertamente.”
Lei insiste molto sulla necessità di parlare dei problemi reali: manodopera, sostenibilità, clima. Perché ritiene che nessuno voglia farlo?
“Perché sono temi che fanno paura. Perché obbligano a prendere posizione, a dire che certe cose non vanno, a riconoscere che il sistema va ripensato. Io ho parlato di manodopera quando tutti dicevano che da noi non c’erano problemi. Poi abbiamo scoperto che i problemi c’erano, eccome. Ho parlato di cambiamento climatico quando nessuno voleva toccare l’argomento. Ho organizzato convegni, aperto discussioni: non per creare allarmismo, ma per responsabilità. Se non affronti i nodi, ti crollano addosso. È sempre così. Vale per il vino, vale per il Paese: si aspetta il crollo del ponte prima di intervenire. Ma se il Consorzio non guida la consapevolezza, chi lo fa?”
In tutto questo, qual è, secondo lei, il nodo più grave?
“Che si stanno distruggendo strumenti essenziali. Una responsabile della comunicazione serve perché devi comunicare. Un direttore serve perché devi governare la complessità. Se togli tutto, cosa rimane? Un Consorzio che non ha voce, non ha capacità operativa, non ha autorevolezza. E non puoi pensare che la promozione internazionale si faccia da sola, solo perché lo dichiari in un’intervista. Io non critico le parole: critico il fatto che sono parole scollegate dalla realtà.”
Se oggi potesse dare una priorità al Consorzio, quale sarebbe?
“Ricostruire la struttura e dire chiaramente dove si vuole andare. Mettere sul tavolo i problemi: manodopera, clima, filiera, valore dell’uva. Decidere se vogliamo produrre sempre di più a prezzi bassi – con impatti ambientali e sociali enormi – oppure produrre meno e vendere meglio. Questa è la scelta che determinerà il futuro del territorio. E su questo serve coraggio politico, non slogan promozionali.”
C’è un elemento di amarezza nelle sue parole?
“Amarezza sì, ma soprattutto responsabilità. Ho guidato il Consorzio per sei anni e so quanto lavoro sia stato fatto. Vederlo smontare così rapidamente fa male, perché non è solo una questione interna: riguarda il futuro del territorio, delle aziende, dei giovani che vogliono restare qui. Io non ho niente da rivendicare: ho la mia azienda e continuo a lavorare. Ma non posso far finta di niente quando vedo cose che non stanno in piedi. Il mio compito è dire come stanno: poi ciascuno si assumerà la responsabilità delle proprie scelte.”














