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Economia | 20 novembre 2025, 19:41

L’ex Ilva e l’Italia che non decide

L’analisi di Diego Bottin: la crisi di Taranto come simbolo di un Paese incapace di scegliere, intrappolato tra immobilismo politico, promesse mancate e futuro industriale a rischio

L’ex Ilva e l’Italia che non decide

Riceviamo e pubblichiamo:

C’è un tratto ricorrente nelle grandi crisi industriali italiane: l’incapacità di scegliere. L’ex Ilva — oggi Acciaierie d’Italia, domani chissà — continua a essere il simbolo massimo di questa patologia nazionale: un limbo permanente in cui non si decide mai davvero, si rimanda, si improvvisa, si cambia idea, si cambia nome, ma non si cambia rotta. E mentre si discute, Taranto paga. Sempre.

Da oltre dieci anni l’Italia assiste alla lenta agonia del suo più grande polo siderurgico come fosse un disastro naturale inevitabile. Non lo è. È un disastro umano, politico, amministrativo. È la fotografia di uno Stato che non sa fare l’arbitro, l’investitore, il regolatore o il controllore. E allora tenta di fare tutto insieme, fallendo in tutto.

La storia recente dell’ex Ilva è una spirale di decreti emergenziali, commissari, promesse industriali mai mantenute, partner privati scelti male e allontanati peggio, investimenti annunciati come epocali e poi dissolti nell’aria. Ogni governo si è presentato con la “soluzione finale”, puntualmente smentita dai fatti. La sicurezza? Ancora insufficiente. L’ambiente? Ancora un tema sospeso. I lavoratori? Intrappolati tra cassa integrazione, incertezza e retorica patriottica sul “salvare l’acciaio italiano”.

Il punto è che l’ex Ilva non è solo una fabbrica che inquina: è una fabbrica che inquina senza produrre, o che produce meno di quanto servirebbe per reggere. È l’unico posto in cui riesce ad essere in crisi perfino l’acciaio — il materiale più richiesto dalla riconversione energetica, dalle infrastrutture, dall’automotive. Uno stabilimento così, in qualunque altro Paese europeo, sarebbe una miniera d’oro. In Italia è un problema insolubile.

E qui sta l’amara verità: il Paese non ha ancora deciso se vuole questa fabbrica o no. Se la vuole green, se la vuole chiudere, se la vuole rilanciare o se preferisce trascinarla avanti in un coma industriale. Tutto è fatto a metà, come se l’Italia avesse paura delle conseguenze di qualunque scelta — tranne di quella del non decidere. Che però è la più costosa di tutte: in salute, in credibilità, in posti di lavoro, in futuro.

Mentre il mondo corre verso la siderurgia verde, l’ex Ilva resta impantanata in una palude burocratica, giudiziaria e politica che nessuno ha il coraggio di drenare. Serve un piano industriale vero, non l’ennesimo power point ministeriale. Servono investitori affidabili, regole stabili, controlli seri, tempi certi. Serve soprattutto una scelta definitiva: Taranto non può più essere l’altare su cui si sacrificano ogni anno migliaia di famiglie in nome dell’incapacità romana.

L’ex Ilva è l’ennesimo disastro all’italiana perché l’Italia lo permette. Ed è ora che qualcuno si assuma il peso della decisione. Non per salvare una fabbrica, ma per salvare un’idea di Paese. Perché se anche l’acciaio diventa liquido, ciò che resta a dissolversi è la fiducia stessa nello Stato.

Diego Bottin

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