Moser, basta il nome. 273 vittorie su strada di cui tre vittorie consecutive alla Parigi-Roubaix, una Milano-Sanremo, due Giri di Lombardia, due Campionati del Mondo e altrettanti Campionati Italiani, un Giro d’Italia e il famoso record dell’ora a Città del Messico.
Volò con la sua bicicletta. Più veloce di tutti. Due volte. La prima il 19 gennaio 1984, quando rubò lo scettro al cannibale Eddy Merckx (50,808 km in un’ora contro i 49,432 del 1972). La seconda, il 23 gennaio 1984, quando superò se stesso, finendo dritto nella storia. Stabilì il 51,151 che si reputa essere il record dell’ora per eccellenza, anche se è stato battuto.
Sembra ieri, ma è cambiato tutto. Lo sport, il modo di vivere e di pensare, il mondo intero. Solo la bicicletta è sempre uguale: due ruote, un telaio, manubrio e sellino. Quella che per vincere bisogna pedalare.
Lo sa bene Francesco Moser, classe 1951, che ha conquistato i più importanti palcoscenici mondiali, ma sempre con il cuore alla sua gente, alle sue vigne, alla sua terra, il Trentino. Partiamo da qui.
Che ricordi hai della tua infanzia?
«Intanto la devozione della nostra famiglia alla Madonna di Fatima, visto che due sorelle sono state chiamate Lucia e Giacinta, come le pastorelle ed io con il nome del terzo pastore, Francesco. Papà aveva le vigne, si lavorava tutti nei campi. Poi è morto all’improvviso, quando avevo tredici anni. Tre fratelli correvano, uno era frate, l’altro era piccolo ed è toccato a me portare avanti i campi. Ho lasciato la scuola e mi sono messo a lavorare la terra senza contare le ore».
Come hai cominciato a correre?
«Eravamo dodici fratelli, tre correvano. Aldo ha iniziato a 17 anni nel 1951, il mio anno di nascita. Io ho cominciato a 18 anni. Era il 1969 e lui, che era agli ultimi anni della sua carriera, mi ha dato una bici delle sue e mi ha detto: “Prova”. Ho tentato per curiosità, anche perché convinto da Enzo e Diego. Dissi che avrei provato a correre due o tre gare di prova e poi, se fossi riuscito a vincere, avrei continuato. Ho vinto immediatamente e così ho proseguito. Il più sorpreso di tutti ero io».
E poi che cosa è successo?
«Ho visto che andavo bene e ce l’ho messa tutta per guadagnarmi il successo: uno può avere il fisico e il talento, ma per arrivare in fondo ci vogliono il lavoro e la testa. Io volevo sempre migliorare ed essere tra i primi, anche se ho avuto avversari importanti. E la competizione è diventata più forte dopo che il ciclismo è uscito dai confini europei. I primi mondiali fuori Europa furono a Montreal nel 1974. Dopo, hanno cominciato ad arrivare i corridori americani e, con la caduta del Muro di Berlino, quelli dell’Est».
Che altro serve per vincere, oltre a talento, fisico e testa?
«Fortuna: alle Olimpiadi di Monaco del 1972 ero nella fuga giusta, poi, all’ultimo chilometro, ho bucato e sono arrivato settimo. Potevo essere bronzo o argento. Qualche anno dopo, facciamo il prologo del Giro di Germania e, nello stesso punto, avevo già vinto, ma ho bucato e sono arrivato secondo».
Quanto è importante l’alimentazione per lo sportivo?
«È fondamentale. Bisogna mangiare bene per avere l’energia sufficiente. Ai miei tempi, ad esempio, ricordo che correvamo mangiando le tortine di riso. Le portavamo in tasca, arrotolate in carta stagnola. E poi, senza neppure scendere dalla bici, ma continuando a pedalare, durante i momenti più faticosi della corsa, le prendevamo per mangiarle e rimetterci in forza».
Che sport è il ciclismo?
«Il ciclismo è uno sport meritocratico. Insegna che non c’è risultato senza fatica. Fatica che condividi con gli altri corridori».
Cosa contraddistingue il professionista?
«Bisogna soprattutto avere una dote in cui si eccelle e curarla: essere forti nelle volate o a cronometro o in salita, a cui vanno aggiunti carattere, convinzione e spirito di sacrificio».
Hai vinto 273 corse in carriera, un record: il successo indimenticabile?
«Più di una singola corsa, vale l’insieme. Ognuna delle mie vittorie completa un mosaico di successi nel quale inserisco anche i record dell’ora. Tutte le mie corse vinte sono state sofferte, ognuna ha una storia di lavoro e di grande impegno, il ciclismo è proprio questo: trasformare l’impossibile in possibile con la perseveranza e con l’allenamento».
Se chiudi gli occhi, che ricordo hai della vittoria al Giro d’Italia 1984?
«Avevo uno svantaggio significativo sulla maglia rosa Laurent Fignon. Recuperai tutto e andai oltre. Mi ricordo l’ingresso dentro l’Arena di Verona. La gente mi accolse con un boato assordante. Dopo essere andato tre volte sul podio e dopo un secondo posto l’anno precedente, finalmente ero riuscito a vincere il Giro d’Italia. Indossare la maglia rosa è una sensazione unica».
Ci spieghi meglio?
«Provi gratificazione e orgoglio. Ma tutto dura poco. Perché dopo aver vinto il Giro c’è il Tour de France. E l’anno seguente devi difendere il tuo titolo e provare a rivincerlo. È una sfida continua».
E poi c’è il record dell’ora. Cos’hai pensato in quel momento di gloria?
«Ho pensato a tutti quelli che non avevano creduto nell’impresa che avevo tentato. Nessuno sembrava credere che potessi battere il primato di Merckx. Tranne Alfredo Martini, il commissario tecnico della nazionale di ciclismo su strada. La tabella di marcia più ottimistica prevedeva un risultato vicino ai 51,2 km/h e io chiusi il secondo tentativo coprendo 51,151 chilometri».
Quel 51,151 è diventato uno spumante che produci con successo. C’è dell’altro?
«Quando ho smesso di correre, nel 1988, ho comprato una campagna e il maso dove vivo, sulle colline di Trento, ci ho fatto vicino il museo con le mie bici, le mie maglie, i trofei. E oltre a occuparmi della cantina, produco bici».
Quali sono i principali cambiamenti del ciclismo di oggi rispetto ai tuoi tempi?
«È cambiato tutto. Ai miei tempi i protagonisti erano pochi e si confrontavano nelle stesse gare. Le squadre erano formate da 12 a 14 corridori, adesso arrivano quasi fino al doppio. Inoltre, oggi c’è più specializzazione: c’è chi va forte a cronometro, chi in volata, chi va bene sul passo e chi sa scalare meglio le montagne. Noi dovevamo andare forte dappertutto».
Oggi, a 73 anni, vai ancora in bici?
«Sì, tutte le settimane. Andare in bici ti permette di scoprire posti nuovi e di viaggiare, è il bello di questo sport».
Che consiglio daresti a un giovane ciclista che sogna il mondo professionistico?
«Deve sapere che il ciclismo è uno degli sport più duri che esistono e, se vuole farcela, deve essere pronto ad affrontare molti sacrifici e dedicarsi a questa passione con tutto se stesso».
Grazie mille e buon Giro a tutti!