Sergio Soave, saviglianese, deputato per tre legislature prima nel Pci, poi nei Ds e per altrettanti mandati sindaco di Savigliano è, oltre che un politico di rango, uno storico apprezzato e stimato in maniera bipartisan. Attualmente è fuori dalla politica di partito ma – dopo essere stato presidente del Polo del ‘900 a Torino - mantiene due incarichi di prestigio in provincia di Cuneo: la presidenza dell’Istituto Storico della Resistenza e quella della Fondazione Cassa di Risparmio di Savigliano.
Ha condiviso col Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, i cui funerali si svolgeranno domani (martedì 26 settembre), insieme alla comune appartenenza di partito, anche un tratto di stretta vicinanza avendo fatto parte del suo staff a Botteghe Oscure.
- Professor Soave, lei è stato, tra gli esponenti della sinistra piemontese, quello che ha avuto l’opportunità di meglio conoscere il Presidente Napolitano perché da giovane parlamentare cuneese era stato suo stretto collaboratore.
“Dovessi dire il periodo esatto in cui collaborai per 8 o 9 mesi con Napolitano, dovrei fare ricerche precise da storico. Diciamo che fui cercato da lui perché avevo una predilezione per la politica internazionale di cui lui era responsabile e che io, pur avendola reclamata nell’ambito della politica parlamentare in relazione alle conoscenze maturate nei miei studi accademici, non potevo coltivare essendo stato dirottato nella Commissione Cultura e Istruzione della Camera. Così accettai di buon grado di far parte del suo staff a Botteghe Oscure”.
- In cosa consisteva il suo lavoro a fianco di Napolitano?
“Il compito affidatomi era quello di rispondere alle numerosissime lettere di militanti o di persone comuni che a lui si rivolgevano per chiarimenti, denunce, inviti a intervenire su questo o quel problema. E questo feci. Preparavo le risposte, lui le rivedeva e correggeva secondo il suo stile di grandissimo rigore (era un perfezionista e controllava minuziosamente persino la punteggiatura, anche per lettere che si inviavano a persone che dimostravano assai poca dimestichezza con la lingua italiana)”.
- Che tipo era il Presidente?
“Di tanto in tanto, tra le rare pause dei suoi impegni (tra l’altro non voleva mai arrivare in ritardo a un appuntamento e stava sempre attento all’orologio) si parlava più confidenzialmente dei problemi internazionali e lì veniva fuori il suo assillo per la costruzione di una più salda e definita unità europea, erosa dal permanere di interessi nazionali degli allora 7 Paesi che vi aderivano i cui governi, al dunque di decisive questioni, finivano sempre per anteporre all’interesse generale quello dei propri Paesi”.
- L’euroscetticismo (per usare un eufemismo) era ancora parecchio in voga nel suo partito in quegli anni.
“Vero. Ma sul tema Europa col tempo aveva faticosamente vinto lui.
Ricordo che erano state forti le resistenze interne di un partito contrario all’adesione allo SME e che gli aveva imposto di fare il discorso di motivazione del voto negativo alla Camera nonostante il suo non larvato dissenso. Accettò per 'disciplina di partito', come mi accennò un giorno in cui si parlava delle sue difficoltà interne. 'Eh si – commentò infine– bisogna avere pazienza, tanta pazienza! Anche perché le cose si evolvono lentamente, forse troppo'”.
- Come veniva considerato nel Pci lui che era leader della componente definita “migliorista”?
“Nel partito veniva apprezzato e insieme temuto, per la linearità delle sue posizioni, ma la sua componente ('corrente' non si poteva dire allora) veniva definita 'migliorista' con una ironia piena di sarcasmo. Se te la appioppavano, o eri ben protetto o eri finito. Qualche piccola e arguta vendetta, giusto per togliersi la soddisfazione, la faceva ogni tanto”.
- Le sovviene qualche aneddoto al riguardo?
“Ricordo quando, di fronte a un giovane ambizioso e presuntuoso dirigente che infarciva gli interventi di citazioni di autori stranieri sconosciuti ai più, gli consigliò di leggere un certo libro che ne avrebbe irrobustito le ragioni. Nome dell’autore e titolo del libro erano inventati di sana pianta, ma quello abboccò e lo citò, cadendo nella trappola di cui, nel bisbiglio di corridoio, tutti vennero a conoscenza, ridacchiando. Quel giovane avrebbe trovato comunque altre strade per fare una immeritata carriera”.
- Non vuole dirci di chi si trattava?
“Sorvoliamo. Io poi fui chiamato ad altri compiti parlamentari e quel breve inserimento nella sua segreteria finì lì. Poco tempo dopo, con la conclusione della mia seconda legislatura, fui lasciato a casa nonostante fossi uno dei dieci parlamentari con deroga a fare la terza (sarei tornato a Roma solo 4 anni dopo, con il cambio della legge elettorale)”.
- Napolitano e la provincia Granda. Che ricordi ha?
“Rividi Napolitano negli anni 1999-2004, ai tempi della sua elezione al Parlamento Europeo. Per un certo periodo, infatti, da Roma non partivano voli diretti per Bruxelles, mentre c’era un Levaldigi-Bruxelles che funzionava. Così Napolitano scendeva a Levaldigi e io, essendone stato informato, andai due volte a salutarlo in quell’ora di coincidenza tra un volo e l’altro. Gli dissi, celiando, che lì comandavo io, essendo sindaco del territorio e lui, stupito, mi chiese se fossi sindaco di Cuneo, rallegrandosene. Infatti sulle schermate degli aeroporti l’aeroporto di Levaldigi era indicato come volo per Cuneo.Gli spiegai l’arcano e si parlò nuovamente di Europa, di come fosse ardua la costruzione di una vera Comunità Europea nonché dei problemi italiani visti dalla nostra provincia, per la quale la soluzione prodiana avrebbe permesso alla sinistra uno spazio di azione che prima era a noi assolutamente interdetto”.
- A far naufragare il sogno dell’Ulivo si frappose Bertinotti, vero?
“Esatto. Si era messo di mezzo Bertinotti coi suoi veti e Prodi aveva dovuto dimettersi. Alzò gli occhi al cielo e scosse la testa: “Ah quel Bertinotti, quel Bertinotti! Che disastro! Possibile che non abbia capito il favore che faceva a Berlusconi? Speriamo che ora ce la faccia D’Alema, dai!” e se ne andò con un abbraccio”.
- Veniamo al 2011 quando Napolitano tornò nel Cuneese, da inquilino del Quirinale, per rendere omaggio al suo predecessore Luigi Einaudi.
“Lo rividi una decina di anni dopo a Dogliani. Ormai presidente della Repubblica, era venuto a rendere omaggio alla memoria di Einaudi, nel cinquantesimo della sua morte. C’era un mare di gente ad attenderlo e potemmo scambiare solo qualche battuta di circostanza, con la promessa, da parte sua, che mi avrebbe invitato a Roma alla festa della Repubblica nei giardini del Quirinale”.
- C’è un aspetto curioso, velato di mistero, di cui si è vociferato in passato in ambienti politici e che nessuno ha mai né confermato né smentito. Si dice che Napolitano l’avesse interpellata per avere informazioni su Guido Crosetto. Se non è più un segreto di Stato può dirci qualcosa?
“Poco dopo la sua venuta in provincia di Cuneo, mi cercò per chiedermi di Guido Crosetto. Erano gli ultimi mesi del 2011. Il IV governo Berlusconi era caduto, sotto i colpi dello spread, e lui aveva dato l’incarico a Mario Monti. Nella lista dei ministri avrebbe visto di buon grado Crosetto alla Difesa, avendone testato le capacità di sottosegretario nel governo precedente. Solo che Crosetto, poche settimane prima, era passato a fondare 'Fratelli d’Italia' con la Meloni, contrarissima a Monti. Non c’era la possibilità – mi chiese - di far fare un passo indietro a Crosetto?”
- E lei che disse al Presidente?
“Gli risposi che, conoscendo Crosetto, era ben difficile che quel passo lo facesse. E infatti tutto finì lì. Ma forse – a ben vedere – c’è una coda in alcune affermazioni di stima che oggi Crosetto, ministro della Difesa, rende a Napolitano. Affermazioni assai diverse dalle gelide condoglianze della Presidente del Consiglio”.
- In questi giorni si legge di polemiche sul passaggio Berlusconi-Monti. Qualcuno, forse con un eccesso di enfasi, ha addirittura parlato di “golpe”. Che idea si è fatto in proposito?
“Ho letto anch’io di queste polemiche insensate su quel passaggio tra Silvio Berlusconi e Mario Monti e me ne dolgo perché le ritengo destituite di qualsivoglia fondamento”.
- E sulla rielezione di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, primo caso nell’Italia repubblicana, che ne dice?
“Che Napolitano sia stato un ottimo presidente della Repubblica, lo si può dedurre da un evento decisivo e incontestabile. Lui aveva già fatto gli scatoloni per andarsene dal Quirinale, ma il Parlamento, a Camere riunite, lo richiamò con larghissima maggioranza e nonostante, nel discorso di investitura, lui avesse ammonito con parole insolitamente aspre che la Repubblica sarebbe stata in pericolo senza coraggiose riforme e senza una assunzione di forti responsabilità da parte dei parlamentari”.
- Già. Quel monito sembra essere caduto nel vuoto visto che nel nostro Paese le riforme pare non trovino mai né il momento giusto né un terreno adeguato.
“Quel discorso, a risentirlo oggi, fa venire la pelle d’oca, perché ha i caratteri della profezia”.
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