Aumentano, chiedono risposte nuove e hanno cambiato il modo in cui guardiamo alla salute mentale degli adolescenti. Dopo la pandemia, i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono cresciuti di oltre il trenta per cento e rappresentano oggi la seconda causa di morte tra i 16 e i 20 anni, dopo gli incidenti stradali.
La sanità da sola non basta: servono luoghi intermedi, reti territoriali, comunità educanti capaci di sostenere ragazzi e famiglie lungo il percorso di cura. È in questa direzione che nasce “Il Biancospino”, nuova comunità riabilitativa dedicata ai minori con disturbi dell'alimentazione, in costruzione nella borgata San Martino di Pocapaglia, a pochi minuti dall’ospedale "Ferrero" di Verduno, da parte della Cooperativa Coesioni Sociali.
Per riflettere sul tema, venerdì 21 novembre alle 14.30, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo ospiterà il convegno “Cibo che nutre o cibo che ammala?”, realizzato da Cooperativa Coesioni Sociali insieme a UNISG e Slow Food. Ne abbiamo parlato con Gian Piero Porcheddu, direttore della Cooperativa Coesione Sociali e responsabile dell’iniziativa.
Perché oggi è urgente parlare di disturbi alimentari?
“Perché i numeri parlano da soli. Dopo il Covid c’è stato un aumento superiore al trenta per cento e nella fascia 16–20 anni i disturbi alimentari sono la seconda causa di morte. Non sono fragilità passeggere: sono malattie che vanno trattate tempestivamente. Prima si interviene, più alte sono le possibilità di guarigione.”
Che ruolo può avere una comunità riabilitativa?
“L’ospedale salva la vita, ma non basta. Dopo il ricovero, i ragazzi devono poter tornare alla vita reale in modo graduale e protetto. Una comunità permette di lavorare sull’alimentazione, sulle emozioni, sulle relazioni, sulla quotidianità. Non si guarisce da soli, si guarisce dentro una rete.”
Come nasce “Il Biancospino”?
“Quindici anni fa abbiamo accolto i primi casi nella nostra struttura di Scagnello. Da allora abbiamo capito che serviva una risposta dedicata. Abbiamo studiato le migliori pratiche, visitato comunità di riferimento come quella di Portogruaro, formato personale e costruito collaborazioni cliniche solide con il territorio. Abbiamo ottenuto dei finanziamenti, abbandonando il progetto della ristrutturazione della struttura di Dogliani per rinnovare completamente un immobile che era di nostra proprietà, una vecchia cascina che usava la comunità Biancospino per le attività di servizi ecologici”.
Perché Pocapaglia? E quali servizi completerà?
“È un luogo strategico: siamo a otto minuti da Verduno, in posizione baricentrica tra Alba e Bra e ben collegata. In Piemonte manca proprio questo tassello. Esistono i reparti ospedalieri e i servizi territoriali, esistono centri diurni come quelli di Alba e Savigliano e una neuropsichiatria infantile di grande qualità. Mancava un luogo di transizione, capace di tenere insieme cura clinica e quotidianità: ora lo avremo.”
Tempi?
“Il cantiere terminerà entro giugno 2026. L’obiettivo è aprire subito dopo, se le procedure regionali andranno avanti con la necessaria attenzione.”
Come si coinvolgeranno le famiglie?
“Sono parte della cura. Non possiamo pensare di lavorare solo sul ragazzo. Stiamo valutando anche una piccola foresteria per permettere ai genitori di passare periodi accanto ai figli: la vicinanza, quando possibile, è terapeutica. Inoltre avvieremo dei progetti per percorsi di educazione familiare, per fornire strumenti pratici per la gestione delle crisi emotive, il coinvolgimento attivo nei processi terapeutici, la collaborazione con l’equipe multi professionale, l’aiuto alla costruzione di un nuovo equilibrio familiare.”
Il convegno del 21 novembre: chi è chiamato a partecipare?
“Non ci rivolgiamo solo ai clinici. È un tema che riguarda la comunità intera: insegnanti, allenatori, educatori, volontari, associazioni, chiunque lavori con i ragazzi. Chi vede per primo un segnale deve sapere cosa fare e a chi rivolgersi. Più antenne abbiamo sul territorio, prima possiamo intervenire. Per questo abbiamo scelto Pollenzo e lavorato con realtà come l’Università di Scienze Gastronomiche e Slow Food: la cultura del cibo, qui, è anche cultura della cura.”
Si tratta di un percorso condiviso.
“Sono mogli attori coinvolti, per questo ringraziamo Carlo Petrini e l’Università di Scienze Gastronomiche per ospitalità e sensibilità. L’ASL CN2, le neuropsichiatrie di Cuneo 1 e Cuneo 2, l’ospedale Ferrero. I professionisti che hanno creduto nel progetto, e soprattutto le famiglie e gli operatori che ogni giorno trasformano la fragilità in possibilità”.
Cosa chiedete alle istituzioni?
“Di riconoscere questa struttura come parte della rete pubblica. Non è un costo in più: è un investimento. Oggi molte famiglie piemontesi devono andare fuori regione, con grande fatica umana ed economica. Tenere qui i ragazzi significa tenerli dentro un sistema di cura e dentro la loro comunità.”














