“Sicario” è un film americano di lingua anglo-spagnola uscito nel 2015, scritto da Taylor Sharidan e diretto da Denis Villeneuve.
Protagonista della vicenda è Kate, giovane e idealista agente dell’FBI che si ritrova a dover combattere i narcotrafficanti tra USA e Messico assieme alla speciale task-force guidata da Matt Graver e dal colombiano Alejandro. La squadra riuscirà a distruggere la piramide di potere che fa capo a Manuel Diaz, ma agendo spesso (e nonostante le rimostranze di Kate) oltre il limite di quel che viene considerato “essere i buoni”.
Sarebbe bello poter parlare di altro, questa settimana, nella nostra rubrica di pseudo recensioni/consigli cinematografici. Ma sapete – e non avrei mai pensato di scoprirlo, sinceramente – il fantasma di una possibile terza guerra mondiale è un evento storico che tende a catalizzare completamente l’attenzione di chiunque rischi di incontrarlo.
E quindi, siamo di nuovo qui a parlare dell’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Dei massacri di soldati, delle casualities civili, delle sanzioni, dei concordati. O, nel caso specifico, di tutto quello che ci sta attorno: della reazione di tutti noi che, almeno per ora, dalla guerra rimaniamo a distanza di sicurezza.
Chiariamo subito, ok? Non sono un esperto di sociologia, di diplomazia, di storia russa o ucraina o di qualunque altro paese del mondo. Sono solo un uomo che si pone delle domande, a cui spesso è incapace di darsi risposta. Ed è proprio questo il punto, il farsi domande. O il non farsele.
E le domande o la loro mancanza sono al centro di “Sicario”, una piccola (grande, per me) perla della cinematografia recente. Il film che ha consacrato non tanto Denis Villeneuve quanto piuttosto il talento narrativo di quel gioiello della scrittura cinematografica che è Taylor Sharidan: Kate comincia a porsele – rispetto ai metodi dell’FBI nelle zone di confine degli Stati Uniti e nella lotta a quel gigantesco mostro tentacolato che è il narcotraffico – quando inizia a collaborare con gli uomini senza scrupolo della squadra di Graver e Alejandro. Se le pone, ma non trova una reale risposta, tanto che nelle scene conclusive si rende conto di non potersi assumere il peso di alcune decisioni nette che una vita come quella ‘sul fronte’ inevitabilmente impone.
Lo specchio di Kate è Alejandro, un uomo devastato dal dolore e reso un animale rabbioso, ben consapevole che in una guerra non esistono buoni o cattivi. Ma soltanto vincitori e vinti.
Nei momenti di tensione e di stress è facile, per tutti e sempre, cadere in logiche semplicistiche confortevoli. E quella del “bene contro male” è la più confortevole di tutte: è facile, è comprensibile e spesso è gratis. Ma è davvero sintomo di una società adulta e democratica, il non porsi domande per paura della complessità? È come se avessimo il terrore di non schierarci, di non prenderci il tempo per riflettere su quale corso d’azione intraprendere. Sempre alla ricerca di una guerra da combattere, il più possibile senza responsabilizzarci davvero.
È chiaro che, in “Sicario”, Manuel Diaz e in generale il mondo del narcotraffico siano gli antagonisti unici e principali (così come è chiaro che lo sia la Russia dalle mire imperialiste del “grande statista” Putin). E che Alejandro – un personaggio oscuro e spezzato, con cui è fin troppo facile empatizzare a causa di, anche giuste, logiche narrative – reagisca semplicemente a qualcosa di cui è stato vittima. Ma il terrore evocato dalle domande irrisolte di Kate è che la linea di demarcazione tra i due, e chiunque agisca nel micro-universo della lotta al narcotraffico, sia ben meno chiara del previsto.
Probabilmente sbaglio io. Come ‘sbaglia’ Kate, che rimane immobile davanti alla possibilità di liberare il mondo da un elemento chiaramente corrotto e incancrenito. Ma continuerò sempre a preferire le domande e la complessità al mondo semplice e fatto di solide realtà che ci piace raccontarci.
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