“Melancholia” è un film del 2011 di produzione danese, svedese, francese, tedesca e italiana scritto e diretto da Lars Von Trier. La pellicola vira attorno alla vita di due sorelle – Justine e Claire – e al senso di impotenza e di vuoto collegato alla depressione; le vite delle due, profondamente intrecciate, andranno del tutto a rotoli come fossero sempre state soltanto una farsa, mentre il gigantesco pianeta Melancholia si avvicinerà sempre più alla Terra minacciandone la distruzione.
Come moltissimi eventi sportivi – la cosa che più si avvicina alla mitologia nel mondo moderno – le Olimpiadi rappresentano un grande calderone di storie, eventi e momenti affascinanti. E quelle di Tokyo attualmente in corso non sono certo da meno.
La loro portata, com’è normale, varia. E la storia di Simone Biles – ginnasta statunitense entrata nella leggenda nonostante la giovanissima età – è una delle più toccanti: ha scelto pubblicamente di non partecipare alla finale a squadre di ginnastica e all’All-around individuale, adducendo come motivazione uno stato psico-emotivo non ottimale (da leggersi “vicino al crollo assoluto”).
Lei stessa li ha chiamati “demoni”, che accorrono come falene alla luce non appena la Biles scende in campo. È ovvio si tratti di problemi psicologici davvero seri.
Degli stessi problemi psicologici – o almeno dell’insieme di questi disturbi – è perfetta, dolente, insofferente e impietosa rappresentazione “Melancholia”, uno dei film di Von Trier che per chi vi scrive si può facilmente ascrivere alla schiera dei capolavori assoluti. Le vicende delle due protagoniste e quelle dell’intero pianeta Terra, sotto costante minaccia di una collisione inevitabile e totalmente casuale con un altro pianeta alieno – collisione che, al termine della pellicola, accadrà davvero - sono perfetta illustrazione delle sensazioni che portano con sé i “demoni” della Biles e di chiunque soffra di disturbi psicologici: l’impotenza più assoluta, il senso di totale incapacità nel poter sperare di comprendere e controllare il proprio corpo, la propria essenza e il proprio destino.
Molte volte si è detto che la mitologia e i suoi personaggi siano una sorta di specchio della società e dei suoi componenti. E se è vero che lo sport è la mitologia dell’oggi – e quindi gli atleti i nuovi Achille, Ulisse, Ettore e via discorrendo - allora lo sport è specchio della società di oggi. E rispetto alle fragilità dimostrate e vissute dalla Biles, e da tanti atleti come lei in questi anni, credo questa società non possa non rendersi conto di dover ancora fare diversi passi avanti per accettarsi a pieno, come dovrebbe.
Sono eroi, sono leggende, sono il meglio dal punto di vista fisico che possa rappresentare la razza umana, ma sono e rimangono esseri umani. Accettiamo – e, sicuramente, accettano - che lo slogarsi di una spalla, lo strapparsi di un muscolo, il rompersi di un osso facciano parte delle loro vite ma non riusciamo a comprenderli davvero quando cedono il passo ai propri “demoni”. Perché se non riescono a sconfiggerli loro, che sono noi al nostro meglio, che speranza abbiamo noi?
La loro stessa, ma per rendercene conto dobbiamo prima ammettere a noi stessi che c’è tanto che non sappiamo sull’oscurità che ci portiamo dentro. Tante, tantissime, zone inesplorate nelle quali non abbiamo mai puntato un raggio di luce, che nemmeno possiamo pensare che esistano. Finché non ce ne rendiamo conto, e a quel punto può essere troppo tardi.
Siamo strani e complicati, tutti noi, anche la Biles. Soltanto per questo riusciamo a essere così straordinari.
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