Ci sono montagne che si scalano con le gambe e montagne che si scalano con il respiro. Il Kilimangiaro appartiene a queste ultime: non pretende velocità, ma presenza; non chiede forza, ma ascolto. È un cammino di pioggia, silenzi, notti senza luna, lacrime che affiorano quando meno te lo aspetti e soprattutto piccoli passi. “Pole pole”, sussurrano le guide: piano piano. Non è soltanto lo slogan della Tanzania, ma la metrica di una trasformazione interiore.
Parliamo di te, di cosa ti occupi?
Sono un’insegnante di yoga, coach di yoga della risata e autrice. Accompagno le persone verso i loro obiettivi, ma soprattutto verso un incontro più sincero con sé stesse. Credo che il benessere sia un equilibrio sottile tra corpo, mente ed emozioni. Lo yoga della risata, nato in India trent’anni fa, unisce la potenza del respiro “alla risata senza motivo”: un allenamento alla gioia. Abitua a produrre serotonina e dopamina anche nei giorni più grigi. Si pratica con esercizi, giochi, canti, gesti che sciolgono le rigidità. Il corpo non distingue una risata spontanea da una volontaria: i benefici restano gli stessi. Migliora l’umore, rafforza il sistema immunitario, nutre le relazioni. È un linguaggio immediato che crea connessione con quello che ci circonda.

Come nasce l’avventura sul Kilimangiaro?
Da una parte di me che cerca la sfida come forma di crescita. Il mio primo grande limite l’avevo superato raggiungendo il Campo Base dell’Everest, a 5.300 metri. Dopo quella salita sentivo di voler andare ancora un po’ più in alto, senza però affrontare una vetta alpinistica. Il Kilimangiaro era la risposta: imponente, ma accessibile. Era previsto nell’agosto 2024, poi il viaggio è sfumato e sono finita in Perù per un altro trekking, dove ho incontrato la mia amica Mari. Conosceva bene questo sogno rimasto in sospeso e a novembre, mi scrive: “Andiamo sul Kilimangiaro a Capodanno?”. La mia reazione immediata è stata: “No no, non sono pronta”. Ma subito dopo è arrivato un sì netto, istintivo, quello che non puoi ignorare.

E’ necessario prepararsi, immagino. Raccontaci?
Si. La prima cosa è avere consapevolezza: stai affrontando una montagna di quasi seimila metri. Non è una passeggiata, è un trekking impegnativo ad alta quota. Serve allenamento fisico: resistenza, fiato, forza muscolare. Io ho lavorato molto anche con il pranayama, gli esercizi di respirazione che ampliano la capacità polmonare. Ma la preparazione mentale conta almeno quanto quella fisica: ascoltare i segnali del corpo, riconoscere i limiti, capire quando rallentare. Pur camminando da anni, la quota mi intimoriva. In Perù avevo già sofferto l’altitudine. E la partenza scelta per il Kilimangiaro prevedeva pochissimi giorni per acclimatarsi.

Ci porti sul Kilimangiaro?
Volentieri. Da Arusha si parte con un miscuglio di euforia e timore, come se l’aria presagisse qualcosa di magico e inaspettato. Gli zaini sono pronti, l’energia è alta, ma la montagna non smette d’impressionare. Siamo in ritardo e la pioggia battezza i primi passi. La foresta pluviale ci avvolge subito: è umida, scura, viva. Il sentiero è un intreccio di fango e radici, e ogni appoggio diventa un gesto di attenzione. Il giorno seguente tutto cambia. La vegetazione si apre e si entra nel Moorland: arbusti bassi e luce piena. Horombo Hut, a 3.720 metri, sembra sospeso tra due dimensioni. Da Zebra Point la vista si distende tra rocce minerali e orizzonti netti, una sensazione di calma che spiazza. Poi si sale verso Kibo Hut, dove resta solo la nudità della montagna: pietra, sabbia, vento. L’altitudine comincia a bussare, il corpo rallenta. La notte non è riposo: è vigilia. Tutto converge verso il momento decisivo.

L’ultimo tratto con la salita finale?
Si va a dormire presto, sveglia a mezzanotte, partenza verso l’una. Indossiamo ogni strato possibile, accendiamo le frontali e ci mettiamo in fila. Ognuna di noi ha una guida personale. Nel buio vedi soltanto i piedi della persona davanti a te: un ritmo ipnotico. Le guide ripetono “Pole pole, acqua”. È la regola che salva: andare piano per non cedere alla quota. A 5.400 metri il mio corpo si ribella. Nausea, mal di testa, l’acqua congelata perché non avevo la sacca termica. Non riesco più a bere. A un certo punto scoppio a piangere. Proviamo a superare un gruppo più lento, acceleriamo, e sto peggio. La tentazione di fermarmi si fa concreta. Le guide mi tolgono lo zaino. Amador, il responsabile, mi dice: “Vieni dietro di me”. Rallenta ancora per tenermi nel gruppo. Poco prima del Gilman’s Point sono sfinita: mi fermo, non vedo la fine. Mancano trecento metri di dislivello: a quella quota sembrano un’eternità. Mi riprendo con le gambe che avanzano per inerzia, la mente resiste a fatica. So solo che Mari è già arrivata e mi aspetta. Quando finalmente la raggiungo, mi corre incontro e mi abbraccia. Io crollo. Piango, ma è un pianto diverso: un rilascio totale, una gratitudine immensa. Una delle emozioni più profonde della mia vita.

Con chi hai condiviso questa esperienza?
Eravamo sei donne, un gruppo nato per caso ma rivelatosi perfetto. Con noi c’erano guide, portatori, cuochi: una piccola comunità itinerante, ognuno indispensabile. Dormivamo in rifugi semplici: camerate, letti a castello, bagni spartani, una sala ristoro dove ogni gruppo si preparava la cena. Gli accompagnatori bollivano l’acqua, ci portavano una bacinella calda la sera e il mattino per lavarci viso e piedi. Piccoli gesti che, in quota, diventano un lusso.

Avevi Il tuo libro nello zaino: “Il potere dei piccoli passi”. Perché?
L’ho portato con un intento preciso: ricordarmi, nei momenti più duri, che ciò che insegno è reale, tangibile. Quel libro parla di mete costruite frammento dopo frammento, senza lasciarsi intimidire dalla visione d’insieme. Sul Kilimangiaro questo principio si è incarnato. Quando il fiato si accorciava e i dubbi si allargavano, sentivo il libro nello zaino come un richiamo: non guardare tutto, guarda solo il prossimo metro. È così che ho capito che una montagna non si conquista con lo sguardo rivolto alla vetta, ma con fiducia nel momento. In quota, la visione totale può schiacciare; ma se resti nel ritmo essenziale del “qui e ora”, ogni progresso diventa un atto di volontà. Così si superano i limiti. Così si attraversa la vita. Un passo alla volta.
Forse è questo il dono più grande della montagna: ricordarci che la trasformazione non nasce dalla conquista, ma dal coraggio di attraversare anche ciò che fa tremare. È così che, come è accaduto a Leslye, diventiamo una versione migliore di noi stessi.
IN & OUT KILIMANGIARO
Porta con te
- La crema solare, il sole è fortissimo
- La presenza, cioè l’abilità di stare dove sei
- La pazienza, verso il tuo corpo, il meteo, gli imprevisti.
Lascia a casa
- L’ansia
- La paura di non farcela
- Il rossetto, quello non serve a nulla
Valutazione : 5 zaini
Legenda
1 zaino (meglio andarci in vacanza )
2 zaini (merita un viaggio ma..)
3 zaini (vale il viaggio )
4 zaini (viaggio da non perdere )
5 zaini (vale più di un viaggio)















