A chiudere la settima edizione del Festival dei Luoghi Comuni, in programma a Cuneo da giovedì 9 a domenica 12 ottobre, un incontro toccante che porta alla luce le voci più inascoltate dei conflitti contemporanei: quelle dei bambini. Il festival, ideato e organizzato dall’associazione culturale CUADRI ETS, quest’anno affronta il tema delle “Narrazioni collettive tra complessità e convenienza”, interrogandosi su quali storie scegliamo di raccontare e quali preferiamo ignorare.
Domenica 12 ottobre alle ore 18 presso lo Spazio Incontri della Fondazione CRC, l’incontro divulgativo “I bambini raccontano la guerra: storie che non sappiamo ascoltare”, realizzato in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, darà voce a chi troppo spesso rimane ai margini della narrazione pubblica. Evelina Martelli della Comunità di Sant’Egidio, insieme alla giornalista professionista Eleonora Camilli e a Enrico Collidà, presidente della LILT di Cuneo, ci guideranno attraverso testimonianze, lettere e disegni che restituiscono uno sguardo autentico e non filtrato sulla guerra: quello dei più piccoli, capaci di vedere e raccontare ciò che gli adulti faticano a esprimere.
Incontro gratuito con prenotazione obbligatoria: Accesso gratuito con possibilità di prenotazione QUI
Abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda a Evelina Martelli, a voi l’intervista.
Qual è il ruolo della comunità di Sant’Egidio nei conflitti contemporanei e come si inserisce il suo lavoro in questa missione?
Noi crediamo che la guerra sia la madre di tutte le povertà ed è evidente come le persone più vulnerabili sono quelle che soffrono di più nei contesti di guerra. Quindi, come persone attente alla situazione dei più vulnerabili, la condizione di chi si trova in guerra è importante per noi. La comunità di Sant’Egidio si impegna su tanti livelli: anzitutto ha un ruolo di mediazione, siamo presenti per esempio in Sudan, in Libia, nella Repubblica Centrafricana, nel Mozambico, e ogni servizio della comunità, dall'amicizia con i migranti ai senza fissa dimora, agli anziani, ai bambini, è un servizio per costruire la pace, soccorrere chi è in difficoltà, ricostruire il tessuto della città e della società, nonché una 'ecologia umana' del convivere. Siamo presenti anche in Ucraina, con molte Scuole della Pace, per aiutare i bambini a guarire dalle ferite interiori, dal grande trauma che la guerra causa. Anche questo è lavorare per la pace, ricostruire una società inclusiva dove tutti possono sentirsi accolti. Le nostre Scuole della Pace sono luoghi dove si impara a vivere la pace e a gestire i conflitti con le parole e non con la violenza, dove si supera la paura che il diverso genera.
Il titolo dell’incontro sembra suggerire che i bambini che vivono le guerre sulla loro pelle non fanno notizia. Perché secondo lei i media tendono a marginalizzare le loro voci?
È difficile ascoltare le voci dei bambini, non si impongono come quelle degli adulti. Sono fragili, quindi bisogna creare lo spazio per far esprimere il loro dolore e le loro angosce. Bisogna fare silenzio e imparare ad ascoltare. Il compito degli adulti dovrebbe essere quello. Tanti bambini si ammutoliscono di fronte a quello che hanno visto e serve creare le condizioni giuste per farli aprire e desiderare di nuovo il futuro.
Cosa rende così autentica la testimonianza dei bambini rispetto a quella degli adulti?
I bambini sono delle vittime e basta. Diceva Elie Weisel, pensatore ebreo scampato ai campi di concentramento: “Il figlio di un nazista non è un nazista, è un bambino”. I bambini non meritano mai una punizione o di soffrire. Devono essere protetti e gli deve essere permesso di crescere e di svilupparsi. Rischiamo di dimenticare che i bambini sono bambini e questo viene prima di altre considerazioni.
Come si raccolgono queste testimonianze nei luoghi di conflitto? Quali sono le sfide pratiche ed etiche?
Raccogliamo le testimonianze dei bambini che partecipano alle nostre scuole. Aiutiamo a trovare spazi per degli aiuti competenti, nel caso si rendessero necessari, e creiamo soprattutto un luogo dove i bambini possono trovare delle figure di riferimento al di fuori dalla famiglia, cosa che li rafforza e gli dona sicurezza. Gli adulti che animano le Scuole della Pace donano l'affetto che manca e aiutano i bambini a crescere e a vivere insieme.
Quale strumento trova più espressivo e potente nel raccontare il trauma: disegni, lettere, parole?
Ogni bambino, anche attraversando le diversi fasi dello sviluppo, cambia lo strumento, non c’è quello più o meno potente. I bambini più piccoli prediligono la facilità espressiva del disegno, poi, crescendo, avendo più solidità anche nell’utilizzo della parola, riescono ad esprimere diverse sfumature con la voce. Bisogna lasciare che ognuno possa offrire un ventaglio di modalità espressive. Anche questa è una forma di libertà.
Come si ascoltano davvero le storie tanto potente senza cadere nella retorica o nel pietismo?
Ognuno nella propria vita e nel proprio contesto può contribuire a costruire un'atmosfera di pace. Crediamo profondamente che il mondo sia tutto interconnesso: se si aiutano a costruire luoghi in cui chiunque si sente inserito e integrato, si può creare un’ecologia umana che aiuta tutti.
In che modo la narrazione diventa uno strumento di dignità e resistenza per questi bambini?
È uno strumento potentissimo: essere privati anche della possibilità di trasmettere e di comunicare il proprio dolore, sapere che nessuno se ne interessa, è devastante. Sapere invece che qualcuno ascolta il tuo dolore ha già un effetto lenitivo. Sapere che qualcuno condivide, aiuta. È una forma di conforto anche per gli adulti sapere che la propria sofferenza è conosciuta.
Quale messaggio spera che il pubblico cuneese si porti a casa da questo incontro?
La pace è un dono preziosissimo e in questo tempo difficile, in cui si mettono in dubbio tanti fondamenti che si davano per scontati, dove crescono i nazionalismi e viene riabilitata culturalmente la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, non bisogna dimenticarsi che dobbiamo aiutare i bambini, che possano crescere nella pace.





