Attualità - 17 aprile 2023, 11:07

Ritratto di Michele Ferrero: l’imprenditore timido partito da Alba per conquistare il mondo

Nelle librerie da domani la prima biografia autorizzata dell’industriale artefice di un successo globale. Le radici a Farigliano, gli studi a Cherasco e Mondovì, quella prima uscita per piazzare nelle panetterie la "pasta Gianduja" prodotta dal padre

In copertina Michele Ferrero in un celebre scatto di Bruno Murialdo

In copertina Michele Ferrero in un celebre scatto di Bruno Murialdo

Imprenditore geniale, generoso, visionario. Dedito al lavoro e attaccatissimo alle sue famiglie, quella di sangue e quella allargata dei suoi dipendenti, a lui unito in un amore ricambiato e mai tradito. Devoto alla Madonna di Lourdes – un faro nelle difficoltà, sino a quella più dolorosa della morte in Sudafrica del figlio Pietro – come nella quotidiana ricerca di nuovi prodotti lo era alla "signora Valeria", nume decisivo nell’orientare il suo approccio al mercato: captare i desideri dei consumatori e trovare il modo migliore per accontentarli. La regola prima per dare vita a una serie di 'prodotti mito' che, dalla Nutella in avanti, non ha avuto eguali nella storia industriale italiana. Ancora: precursore della responsabilità sociale di impresa – con le corse dei pullman per portare gli operai in fabbrica anche dalla Langa più remota, le colonie estive, la Fondazione Ferrero per assicurare ai pensionati occasioni di 'invecchiamento attivo', ma prima ancora con quelle 17 regole affisse in fabbrica per spiegare a tutti i suoi collaboratori come la ricetta del successo di un’azienda modello fosse partire dalla felicità dei dipendenti. E anticipatore a suo modo dell’Europa del mercato unico, eppure industriale tenutosi sempre lontano dalla politica, come rifiutò l’invito del governo a farsi carico della Perugina e pure la laurea honoris causa offertagli dall’Università di Torino.

Questo era l’albese più noto al mondo secondo il ritratto che esce dalle 288 pagine di "Michele Ferrero. Condividere valori per creare valore", nelle librerie da domani, 18 aprile, per i tipi dell’editore Salani (Collana Le Stanze, 18 euro), prima biografia autorizzata dell’industriale scomparso nel giorno di San Valentino del 2015, a un passo dal traguardo dei novant’anni (li avrebbe compiuti il 25 aprile).

Ne sono trascorsi otto, di anni, da quando Ferrero si è spento in una clinica di Monte Carlo, il giorno dopo che il figlio Giovanni gli aveva comunicato che il gruppo nato da una pasticceria in via Maestra ad Alba aveva superato Nestlé scalzando il colosso svizzero dal terzo posto nella classifica mondiale dei colossi dolciari. E tre, di anni, prima che Salvatore Giannella, giornalista di lungo corso con una carriera iniziata nella redazione di "Oggi" e proseguita con la direzione de "L’Europeo" e di "Airone", potesse concludere l’importante lavoro fatto per mandare alle stampe – l’uscita domani, nel dodicesimo anniversario dalla scomparsa di Pietro – il ritratto dell’imprenditore che ha fatto di Alba una capitale d’impresa conosciuta in Italia e nel mondo non soltanto per i suoi successi aziendali e gli originali prodotti, ma anche per l’unicità e singolarità di imprenditore del suo fondatore, raccontata nel libro a partire da un approfondito lavoro di ricerca, ma soprattutto per mezzo delle interviste e testimonianze rese all’autore dal figlio Giovanni (quest’ultima riprodotta in coda al volume, insieme a una completa appendice fotografica) e insieme a lui da una settantina tra quelli che del signor Michele furono i più stretti collaboratori.

Tra questi l’attuale presidente di Ferrero Spa e segretario generale della Fondazione, Bartolomeo Salomone, tra i talenti manageriali che l’azienda usava crescere al suo interno dopo averli scovati facendo selezione dei migliori studenti usciti dalle scuole del territorio. Ma anche gli ormai scomparsi Francesco Paolo Fulci – amico personale di Michele, salito ai vertici dell’azienda di Alba dopo essere stato ambasciatore italiano all’Onu  – e Gianni Mercorella, che del 'signor Michele' fu segretario personale per oltre vent’anni.

Con loro molti altri e moltissime testimonianze, "decine di ore di registrazione – ha spiegato l’autore, ospite nei giorni scorsi alla fondazione di Strada di Mezzo per una prima presentazione del volume alla stampa – che ho dovuto in buona parte trascurare perché l’eccesso di giudizi positivi ne avrebbe fatto un’agiografia".

Racconti personali a partire dai quali Giannella ha cercato di ricostruire "il mosaico umano e alcuni lati inediti e affascinanti dell’inventore della Nutella", dando vita a 28 capitoli nei quali scorrono innumerevoli aneddoti utili a entrare nel privato dell’imprenditore (all’anagrafe Michele Giuseppe Eugenio) sin dall’infanzia trascorsa sui banchi di scuola nel seminario dei Padri Somaschi di Cherasco, dove il figlio di Pietro e Piera Cillario Ferrero frequentò gli anni successivi alle elementari. E dell’adolescenza trascorsa all’Istituto Tecnico "Baruffi" di Mondovì, ospite del collegio vescovile il cui rettore economo era lo zio materno Eugenio Cillario.

Vi si diplomerà ragioniere nel 1944, dopo anni che lo stesso Michele ricorderà nelle confidenze all’autista Serafino Bindello, grato al padre per quella scelta che in principio gli sembrò punitiva. Ma ve ne è traccia anche in una lettera scritta dal compagno di scuola Emilio Cioni e scovata dall’autore presso la biblioteca dell’Università di Bologna. Uno scritto nel quale si dà conto di un giovanissimo Michele impegnato a cercare di "le giuste amalgame" tra la polvere di nocciole e quella di castagne mescolate sul banco, evidenziando non senza il divertito stupore dei compagni il germe di quella inclinazione alla ricerca e all’innovazione che ne avrebbe contraddistinto gli anni di lavoro in quella "sala della chimica" che nello stabilimento di Alba sarebbe diventato il suo luogo di lavoro quotidiano.

Gli aneddoti si susseguono, insieme alla ricostruzione di una storia familiare le cui radici affondano in frazione Viaiano di Farigliano, comune della Valle Tanaro i cui archivi ancora danno conto della staffetta di nomi – Michele, Pietro, Giovanni, Michele… – che rende oggi "immortale quella filiera familiare".

Alcuni sono in qualche modo noti. Il principale di questi rimanda a un celebre discorso alla vigilia del Natale 2013, che un Michele ormai 88enne rese ai propri collaboratori riconducendo i primi passi del "gigante buono" alla data del 14 maggio 1946, giorno di costituzione della "Ditta Individuale P. Ferrero. Fabbrica di cioccolato, torrone e dolciumi vari".

Michele vi ripercorse gli inizi del padre Pietro e dello zio Giovanni, che da Farigliano avevano cercato fortuna a Dogliani aprendovi un primo caffè pasticceria sotto i portici di via Corte. Quindi l’incontro e il matrimonio tra il padre e la madre Piera Cillario, pure lei doglianese, della frazione di Piancerreto. La ricerca della fortuna nella vicina Alba e poi a Torino. Quindi in Corno d’Africa, Asmara, Eritrea, dove il padre tentò l’avventura dal 1933 al ’39, prima del ritorno a Torino e quello da sfollati nelle Langhe, mentre l’ex capitale del Regno bruciava sotto le bombe inglesi.

In un piccolo laboratorio nella capitale delle Langhe il padre Pietro si inventò la "Pasta Gianduja", alternativa economica al cioccolato elaborata estraendo lo zucchero allora introvabile dalla melassa della birra e miscelandolo a una pasta densa di nocciole. Quella di venderla era lavoro dello zio Giovanni ma divenne pure il primo incarico di un giovanissimo Michele, che quasi settant’anni dopo ricordò con emozione quei primi imbarazzati tentativi di piazzare quella crema nelle panetterie nella sua prima giornata da agente esclusivo nella vicina Asti. Dalle prime due uscì dopo aver comprato 'micche' di pane, ma senza trovare il coraggio di presentare il suo prodotto. Dalla terza andò meglio: "Sono tornato a casa con un ordine da dieci kg e ho detto: 'Abbiamo vinto, papà!'. E di lì poi è partita la storia della Ferrero".

Dalla "pasta Gianduja" nacque prima la Supercrema e quindi la Nutella, segnando i settant’anni di storia della Ferrero sotto l’ascendente del suo fondatore. Se note sono le pietre miliari dell’ascesa che portò l’industria di Alba a varcare i confini del Piemonte e presto anche quelli italiani, a partire dalla realizzazione dello stabilimento di Allendorf, in Germania, molto meno sono le vicende del quotidiano vissuta dal suo fondatore e della famiglia industriale albese.

Nel libro sono ripercorse a partire insieme ad altrettante curiosità, tra giornate lavorative cui seguivano illuminazioni notturne sui nuovi prodotti ai quali lavorare il giorno successivo, al punto da voler reclutare tra i suoi collaboratori un "segretario pipistrello", disposto a registrarne i ricorrenti spunti maturati in ore insonni. O la scelta di trasferire i figli ancora giovanissimi prima a in collegio a Moncalieri e quindi a Bruxelles, per metterli al sicuro dopo che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa lo avvertì che la famiglia era entrata nelle mire dei brigatisti, che per due mesi ne avevano seguito i movimenti per quello che probabilmente era un proposito di sequestro a scopo di estorsione.

E la sua dimensione religiosa e spirituale, centrale nella sua personale vicenda: "Lo devo alla Madonna di Lourdes", rispondeva tra il serio e il faceto quando gli si chiedeva il segreto del suo successo, come alla figura mariana si richiamava la penna con la quale firmava le ricette definitive dei prodotti elaborati nella "sala della chimica".

"Sono socialista a modo mio, produco ricchezza da distribuire", ebbe a dire respingendo con fare garbato le insistenze dell’allora ministro Altissimo affinché l’azienda di Alba si facesse carico di una Perugina in forte difficoltà: "Dovrei lavorare per fare crescere un’azienda concorrente. Una ragione ci sarà, se sinora non ha funzionato…".
 
Investiva milioni nelle sue aziende ed era unico per come, elaborata un’idea di prodotto, lavorasse per trovare la tecnologia utile a realizzarlo su scala industriale preservandone la massima qualità. Ma era morigerato e non sopportava gli sprechi. Come mal digeriva le passerelle e la visibilità. "Lascia perdere, ci facciamo poi una cena con la nostre famiglie", disse a Silvio Berlusconi declinando il suo invito a fare da ambasciatore dell’industria italiana al G7.

Solo cedendo alle insistenze dell’ambasciatore Fulci si prestò a quella che oggi viene riconosciuta come l’unica intervista da lui concessa in vita. Un colloquio avuto con l’allora direttore de "La Stampa" Mario Calabresi. Ma con l’impegno da parte di quest’ultimo a pubblicarla solo dopo la sua morte, come avvenne.

Schivo quindi, allergico ai riflettori, per timidezza e per timore di apparire vanesio, perché "le interviste sono come le ciliegie, assaggiata una non ne hai mai abbastanza", mentre lui preferiva parlare col fare e coi suoi prodotti. 

 

Ezio Massucco

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