Attualità - 21 dicembre 2025, 07:15

STORIE DI MONTAGNA 195/ Il Natale com'era

Quattro voci, un ricordo condiviso e il desiderio di un Natale che sapeva scaldare e creava attesa.

Quest’anno ho raggiunto il mezzo secolo. E, più di ogni altra cosa, mi sono accorta che continuo a desiderare il Natale di una volta. Non per dire che fosse migliore, ma perché era diverso.

Per la semplicità dei piccoli regali, per il fatto che non sempre arrivava tutto, per quell’attesa vera che oggi facciamo fatica persino a spiegare. Ricordo quando, da bambina, salivo sulla macchina dei miei genitori e andavo a vedere le luci di Natale a Cuneo, le chiamavano le illuminarie: mi sembravano tantissime e bellissime. Oggi le hanno tutti i paesi, allora no. Ricordo la neve, che c’era davvero. Ricordo di essere stata una bambina semplice, e di aver aspettato il Natale con tutto il corpo.

A casa lavorava solo mio papà, al massimo arrivava un regalo o poco più. Ma il Natale lo trascorrevo in montagna dai nonni. A mezzanotte della Vigilia si andava a Messa, nella piccola chiesa di Sant’Antonio di Aradolo, sopra Borgo San Dalmazzo. Era fredda, ma ci si scaldava con gli auguri e la fetta di panettone dopo la messa in sacrestia. Durante la comunione, io e la mia amica Silvia, cantavamo “Tu scendi dalle Stelle”.

Al mattino, al ritorno, trovavo i regali ai piedi del letto. Quel ricordo ce l’ho ancora addosso, forte e bello. E sì, un po’ mi manca.

Forse è anche per questo che, anche quest’anno, ho chiesto ad altre persone di raccontarmi il loro Natale com’era.

Albino classe 1958, parla di una casa piena di voci e di fatica.

Erano in nove in famiglia e la mamma, rimasta sola, teneva insieme tutto: la casa, i figli, la vita quotidiana. La vita di campagna era dura, ma in qualche modo se la cavavano.

A Natale lei trovava sempre il modo di lasciare a ognuno un piccolo regalo. Non era mai qualcosa di superfluo: erano cose utili, necessarie. Guanti, calze, fatti a mano. Aveva sempre una pecora nera, per fare un bordino diverso e decorare i suoi manufatti. Li cuciva fino a mezzanotte, perché al mattino ci fosse almeno quello. Un segno, più che un dono.

Il cibo era poco. Il pane la mamma lo faceva ogni giorno, c’erano sempre la polenta e il latte. Quando Albino lavorò per un periodo presso altre famiglie, a casa arrivava qualcosa in più, ma restava un mangiare semplice. E con un sorriso arriva la battuta: di sicuro non si stava male al fegato, e il colesterolo non sapevano nemmeno cosa fosse.

Marilena racconta un Natale fatto di poco, ma vissuto con attenzione.

In casa non c’era l’albero, ma un ramo di pino, appeso così com’era. Non veniva tagliato: restava intero. Ognuno dei tre fratelli aveva il suo piccolo spazio su quel ramo, chi la parte in alto, chi una delle due laterali. Lì si appendevano caramelle e mandarini, bastava far passare un filo e diventavano decorazioni, piccoli tesori da guardare e aspettare e il giorno di Natale, finalmente, gustare.

I regali, quando arrivavano, erano sempre utili. Mai superflui: maglie, calze, indumenti fatti per durare, cose che entravano subito nella vita di tutti i giorni.

La differenza la faceva la cucina. La mamma era una brava cuoca e a Natale preparava le “Strasse”, come diceva il papà. Gli stracci, in piemontese: pezzi di pasta più grossi con cui si costruiva una specie di lasagna. Spesso la carne non c’era, e allora si riempiva con altro: patate, cavolo, riso, burro.

Quel Natale non aveva bisogno di altro.

Gianfranco, che tutti chiamano Franco, classe 1953, del Natale conserva ricordi che fanno male.

Per lui non è mai stato un tempo di attesa o di sorpresa. I regali non arrivavano. Mai.

Il papà è morto giovanissimo, per un tumore, e la mamma non aveva soldi. Ma anche prima, quando il papà c’era ancora, la vita era dura: tre figli, un po' di campagna e pochissime risorse. Si sentiva parlare del Gesù Bambino – allora non c’era Babbo Natale – ma restava una storia raccontata dagli altri.

C’è stato un solo Natale diverso. Aveva nove anni.

Quella mattina, grazie all’Associazione degli Orfani, trovò delle costruzioni di legno. Passò più di dieci giorni a costruire e ricostruire. Ancora oggi dice che quello è stato il regalo più bello della sua vita. L’unico ricevuto da bambino. Le uniche piccole cose che si potevano permettere erano noci, arance e i “cri-cri”, che a differenza di adesso, erano le caramelle meno costose.

Poco dopo fu messo in collegio. Dai nove ai quindici anni visse lì, in un luogo durissimo. La fame era una presenza costante. Racconta che ancora oggi ha l’abitudine di tenere il pane stretto contro la pancia, con le mani incrociate davanti: in collegio ti davano un solo panino, e se non lo custodivi te lo rubavano.

Un Natale che non è mai riuscito a vivere davvero, perché a casa sua la povertà non era un’idea, ma la realtà di ogni giorno.

Maddalena, classe 1956, invece, conserva ricordi buoni.

A casa sua i dolci arrivavano sempre, e spesso anche qualche piccolo dono: una bambola, qualcosa da stringere tra le mani. I genitori avevano un distributore e il papà scherzava spesso, dicendo che quell’anno il Bambinello non sarebbe entrato. Erano parole dette per ridere.

Un anno, mentre i genitori erano al lavoro, Maddalena andò a cercare i regali. E li trovò.

C’era una bambola bellissima, con i capelli neri e lunghi, che si poteva vestire e svestire. Se la immaginò già tra le braccia la mattina di Natale.

Ma quella bambola non arrivò mai. Fu regalata a qualcun altro. Al suo posto trovò un piccolo bambolotto di plastica, Marcellino. La delusione fu grande. Non solo per il regalo mancato, ma per qualcosa di più profondo: in quel momento capì che il suo Bambinello non esisteva.

Eppure, insieme a quella ferita, restano altri ricordi: la casa che profumava di “Cupeta”, il dolce tipico di Mondovì preparato dalla zia, dove noci, nocciole e miele caramellato venivano chiuse dentro due ostie.

Passava molto tempo a preparare il presepe, faceva un rudimentale albero di Natale con dei rami di ginepro e della palline improvvisate, l’attesa che riempiva le stanze.

Forse è proprio per questo che ogni anno ritorna la rubrica sul Natale com’era. Non per rimpiangere un tempo povero, né per dire che oggi il Natale non sia bello. Non lo è meno, è solo diverso. E non stiamo parlando di moltissimi anni fa, ma di un tempo vicino, che molti di noi ricordano ancora sulla pelle.

Quello che manca, forse, non sono le cose, ma il calore. La capacità di accontentarsi, di aspettare davvero, di dare valore a ciò che arrivava, poco o tanto che fosse.

Forse questa non è la solita storia di montagna che ti aspettavi. Sono storie diverse, vite lontane, ma con un filo comune. Il racconto di un Natale che insegna a stare, prima ancora che ad avere!

Buone feste nella speranza di potervi accompagnare ancora per tutto il 2026 con le mie storie.

Nei prossimi giorni sui profili social di https://www.instagram.com/cinzia_dutto_fanny e hrrps://www.instagram.com/targatocn usciranno le video interviste! Seguici.

Cinzia Dutto