“Ci sono cose che non si fanno per coraggio, ma per guardare di nuovo la luce”, scriveva Cesare Pavese. Ed è con questa luce da ritrovare – non quella che abbaglia, ma quella che sussurra – che si muove La collina sale sempre, il festival di arte contemporanea ideato e curato dall’artista argentino Ernesto Morales e dalla Storica dell’Arte Marzia Capannolo, fondatori del centro espositivo Artefora a Castiglione Tinella Il progetto è promosso dall’associazione Artefora - Centro per l’Arte Contemporanea in collaborazione con l’associazione Radici Connesse, da anni attiva nella valorizzazione culturale e produttiva del territorio.
Ha preso forma il 21 giugno, nel cuore di una giornata piovosa, a Castiglione Tinella, senza rinunciare al passo, anche se lento. Da lì in poi, non è più stata solo una rassegna: piuttosto, una traiettoria sensibile che si allunga sulle colline di Langhe e Monferrato, toccando sei Comuni – Castiglione Tinella, Castagnole delle Lanze, Barbaresco, Santo Stefano Belbo, Neive e Alba – e lasciando che l’arte entri nei luoghi senza forzarli, ma adattandosi al loro respiro.
Ideato come un itinerario dedicato all’arte contemporanea, il festival si configura come un percorso diffuso, che accoglie ventidue artisti provenienti da Italia, Argentina, Lettonia e Perù, ciascuno chiamato a favorire la conoscenza dei luoghi attraverso un connubio diretto con il territorio. Le opere – tutte site specific, pensate per spazi precisi e irripetibili – abitano chiese, torri campanarie romaniche, cantine, fienili, porticati e casali storici, trasformando l’esperienza della visita in un incontro attivo. Ogni inaugurazione, inoltre, è arricchita da incontri, workshop, percorsi guidati, pensati per raccontare non solo il linguaggio dell’arte, ma anche quello dei luoghi.
Il filo conduttore di quest’edizione nasce da un passo tratto dal romanzo La luna e i falò di Cesare Pavese, da cui il festival prende anche il titolo. L’idea guida è quella della trasformazione: non come mutazione improvvisa, ma come processo che conserva la memoria delle esperienze passate, capace di incidere nel profondo degli stati emotivi e di rinnovare percezioni, strutture, morfologie. È in questo movimento interno – che riguarda l’arte quanto chi la guarda – che il paesaggio si fa specchio.
Ogni tappa non è un’isola, ma una conseguenza della precedente. Come quando il buio di una chiesa romanica accoglie un’opera e la trasforma in presenza vivente, o quando una torre antica espone la pittura al vento e alle altezze. Il festival si muove per associazione più che per progressione, attraversando cantine, pievi, corti, porticati, sempre cercando una soglia da varcare, mai un traguardo da annunciare.
Nel primo movimento, tra le sale di Artefora, la pittura stratificata di Māris Čačka ha segnato il ritmo dell’intera edizione: tele nate in residenza, in ascolto del paesaggio, che si sono disposte come pagine non numerate, ognuna aperta a chi guarda. Intorno, altri artisti hanno intessuto dialoghi minimi e profondi: sculture, installazioni, fotografie, geometrie binarie, tracce materiche. Tutto sembrava respirare nella stessa direzione, come se le differenze stilistiche fossero già superate dalla condivisione di uno stesso orizzonte.
E se la pietra e l’umidità hanno dominato l’inizio, il giorno successivo a Castagnole delle Lanze ha portato con sé materie più arcaiche e terrestri: marmo, terracotta, fotografia, fibre. La spiritualità non era tanto nei simboli, ma nell’accostamento dei gesti. Le opere sembravano emergere dai muri, non appoggiarvisi. E i luoghi, ancora una volta, smettevano di essere sfondo per diventare corpo abitato.
Più tardi, a Barbaresco, la verticalità della torre ha guidato verso un’altra forma di intensità. Qui, la pittura lettone – rigorosa, tattile, profonda – ha trovato nel vuoto e nella pietra la sua grammatica naturale. Un silenzio più alto, da guardare verso il basso. Come se, salendo, si fosse chiamati a scendere dentro.
Il passaggio successivo ha riportato tutto a terra. Ma non al suolo: alla radice. Nella Chiesa di Sant’Andrea a Castiglione Tinella, l’opera De-posizione di Nedda Guidi si è imposta come un punto fermo. Un corpo scultoreo che non ha chiesto interpretazioni, ma ha lasciato il segno della propria essenza. Lì, il tempo è sembrato sospeso. Un’eco sottile, tra geometria e gravità, ha attraversato il pubblico, come una pausa che si prolunga oltre il necessario.
Dopo quell’asse verticale, il festival ha imboccato una nuova direzione: quella dei doppi paesaggi. A Santo Stefano Belbo, con Geografie della Luce: un flusso di luce e materia, energia rallentata. L'opera cambia attraverso il movimento di chi guarda, l'opaco diventa luminoso, sottolinando l'importanza di cambiare il proprio punto di vista.
A Neive, con Geografie del Silenzio, nella recuperata antica chiesa di Santa Maria del Piano, le opere di Morales hanno tracciato un percorso tra ciò che si illumina e ciò che tace, tra ciò che appare e ciò che resta. Un gioco di scambi tra luce e tempo, pittura e ombra.
In mezzo, nella Chiesa di San Rocco, l’installazione Elementa di Riccardo Monachesi ha aggiunto un respiro rituale, legato alla simbologia del cammino e al gesto dell’ascolto.
A cucire tutti questi passaggi, come una sottotrama discreta ma costante, sono stati i produttori del territorio, coinvolti da Radici Connesse. Non come appendice enogastronomica, ma come presenza dialogica, capace di far emergere l’analogia tra il lavoro dell’artista e quello del contadino: entrambi manipolano la materia, entrambi attendono, entrambi offrono.
Nel tessuto narrativo e curatoriale che tiene insieme tutto il percorso, si inserisce la visione di Marzia Capannolo, direttrice artistica: “L’intero festival è pensato come una mappa aperta, in cui le traiettorie degli artisti si intrecciano ai linguaggi del territorio, alla storia dei luoghi e alla percezione del pubblico. È un progetto che non si esaurisce nell’evento, ma che genera risonanze, piccoli mutamenti nella relazione tra arte, paesaggio e comunità”.
Un’idea condivisa da Ernesto Morales, che aggiunge: “Non vogliamo spiegare il territorio, vogliamo abitarlo con uno sguardo nuovo. Ogni collina che sale è un esercizio di riconoscimento. L’arte contemporanea può ancora essere un gesto di ascolto e di trasformazione, e questo festival è il nostro modo di dimostrarlo, con rigore ma anche con leggerezza”.
Ora il cammino continua. Domenica 6 luglio, alle 19, la cantina di Beatrice Cortese ospiterà un incontro tra arte e fotografia, con un dialogo in terrazza tra Morales e Bruno Murialdo. E il 20 luglio, tra le colline di lavanda di Ansèm, il festival chiuderà il suo percorso così come è cominciato: non con un finale, ma con un passaggio, un altro modo per salire ancora un po’, anche solo per guardare di nuovo la luce.
Le mostre sono visitabili fino al 20 luglio: venerdì dalle 17 alle 19, sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. Info e prenotazioni: info@artefora.com, 346 9421242 (6 luglio), 338 5353065 (20 luglio).