In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,27-30).
Oggi, 11 maggio 2025, la Chiesa giunge alla IV Domenica di Pasqua (Anno C, colore liturgico bianco).
A commentare il Vangelo della Santa Messa è Claudio Bo, diacono della chiesa Battista di Mondovì.
Amore, vita, valori, spiritualità sono racchiusi nella sua riflessione per “Schegge di luce, pensieri sui Vangeli festivi”, una rubrica che vuole essere una tenera carezza per tutte le anime in questa valle di esilio. Pensieri e parole per accendere le ragioni della speranza che è in noi.
Eccolo, il commento.
Siamo in un momento centrale della predicazione di Gesù e, ovviamente, in un momento centrale dell’Evangelo di Giovanni. La Parola diventa esplicita, il Messia si presenta come tale ai giudei: il buon pastore e il figlio di Dio. Attorno a Lui c’è l’incredulità di chi nega l’evidenza del prodigio, di chi avverte la pericolosità (per il Tempio e per le gerarchie religiose) di questo nuovo Messia che si proclama tale e che mette in guardia contro coloro che lo avevano fatto in passato e lo faranno in futuro. Com’è noto, infatti, non erano mancati falsi profeti, specialmente con la Palestina soggetta al dominio romano.
L’immagine del pastore e del gregge è ricorrente nei Vangeli, perché è esplicita: Cristo è qui per mettere in salvo le sue pecore, l’umanità dei credenti, quelli che Lui conosce e che saranno sempre con Lui, quelli che avranno la vita eterna.
In questi quattro versetti, però, sono inseriti alcuni cardini della nostra Fede, potremmo dire alcune certezze per il credente. Il primo, ovviamente, attiene alla salvezza. Le pecore non simboleggiano la sottomissione, ma la fede e la fraternità. Sono mansuete, perché seguono il pastore, ma è la Parola la forza che le difende dai lupi e dai mercenari e questa forza viene consegnata loro per l’eternità. Inoltre il gregge non è uno solo, ma sono molti che si uniscono nella Fede con un ovvio riferimento ai gentili.
Il secondo è la missione di Cristo vero uomo, vero Dio. Le pecore gli sono state consegnate dal Padre al quale nessuno può strapparle. Il buon pastore è qui per salvare l’umanità, per siglare il Nuovo Patto tra Dio e il suo gregge.
Il terzo attiene alla divinità del Cristo. «Io e mio Padre siamo una cosa sola». Cristo è Dio e lo è in eterno, vale a dire prima dei tempi e sino alla fine dei tempi. Quello che sta accadendo in quel momento, in tutta la vicenda terrena del Cristo, è in qualche modo fuori del tempo dell’uomo: è il tempo di Dio per noi inconoscibile, quello in cui Dio si fa uomo, restando parte della Trinità. Dio tra gli uomini e sulla terra, fatto di carne eppure prodigioso, martirizzato e Risorto che compare ai discepoli come uomo, non come fantasma o illusione.
Gesù proclama la sua divinità, inscindibile da Dio, inscindibile dall’uomo. Per i giudei non c’erano alternative: accettare la venuta del Messia o accusare Cristo di bestemmia e lapidarlo.
Giovanni ci dice che questa era l’intenzione dei giudei che in più riprese volevano mettere a morte Gesù che, invece, fugge oltre il Giordano.
Eppure la reazione di quelle persone ad un annuncio tanto paradossale è comprensibile, specialmente in una cultura che punisce la bestemmia con la pena capitale. Paolo ci dice che si crede nonostante sia assurdo, proprio perché è assurdo. L’adesione alla Parola è una conversione che non è umana, che discende dalla Grazia di Dio. Al credente spetta aprirsi alla Fede, non rifuggire la potente chiamata del Signore.
Perché il cristiano è tale se risponde a Gesù come Pietro (Mc. 8, 29): “Egli domandò loro: «E voi, chi dite che io sia?». E Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo»”.