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Farinél | 17 marzo 2024, 11:28

Farinél/ L’Albesità è capacità di rinascere dalla “Nita”, dal fango, da cui prendere esempio

L’albesità è quel senso di appartenenza che nasce nei momenti di difficoltà e che non si trova ad altre latitudini. È intriso dello spirito di riscatto dopo la Malora. È quel “ghëddo” che ha portato a risollevare la Ferrero dopo due alluvioni disastrose, che ha fatto diventare le colline del Basso Piemonte patrimonio Unesco dopo la prima bocciatura e che tiene uniti anche durante la crisi aziendale peggiore che questo territorio abbia conosciuto: quella di Egea

Alba, l'opera di Valerio Berruti in piazza Ferrero

Alba, l'opera di Valerio Berruti in piazza Ferrero

Basta leggere i commenti al pezzo “Cuneo esercita ancora il ruolo di città capoluogo di provincia?” per capire come una questione ormai messa in un cassetto da noi albesi, quella di una provincia Alba e Bra, sia ancora tema di discussione dalle parti di piazza Galimberti.

Nel dibattito tra l’ex sindaco e senatore Beppe Menardi, l’ex vicesindaco Giancarlo Boselli e Ugo Sturlese, moderato dal nostro Giampaolo Testa, emerge forte uno spiacevole senso di inferiorità nei confronti della città di Alba.

Sgombero subito il campo ed entro a piè pari nel tema gettando benzina sul fuoco che poi proverò a spegnere: ad Alba, nel frattempo, nessuno si è accorto delle discussioni che si fanno a Cuneo. Alba è già molto oltre, Alba che negli ultimi 40 anni è andata a letto presto per lavorare di più e meglio lasciando in un cassetto le ambizioni “provinciali” da Provincia per riscoprirsi più volte capitale.

A noi albesi va bene così.

L’ALBESITÀ, LA PAOTA E I CONFINI DEL REGNO A POLLENZO

Il confine, lo sanno tutti, è il ponte, mai ricostruito di Pollenzo. Quello è il luogo fisico in cui finisce il “Regno” di Alba e inizia la provincia di Cuneo.

Adesso proverò a spiegare su un giornale nato a Cuneo, ma che tutti sentiamo come nostro, cosa significhi albesità. Partiamo da una nota personale: vivo a Priocca d’Alba, il paese dei miei genitori, dove sono cresciuto, dove ho studiato per i miei primi 13 anni. Priocca è ai margini della provincia, in 6 minuti di auto si arriva a San Damiano d’Asti. Asti dista 18 minuti di auto, Alba 15 minuti, Alessandria 35 minuti con una comoda autostrada, in 55 minuti sono in centro a Torino, in 1 ora e 5 minuti posso fare aperitivo a Vercelli e ancora, in 1 ora e 18 minuti arrivo al Forum di Assago, in 1 ora e 22 minuti al Teatro Carlo Felice di Genova.

Se dovessi partire per andare a Cuneo ora, tra traffico e cantieri, non mi basterebbe un’ora e mezza e questo la dice lunga sul perché a queste latitudini Cuneo sia solo una città dove andare nella gita fuori porta per assistere alle meravigliose mostre della Fondazione Crc o agli interessanti incontri organizzati da Confindustria Cuneo.

Decenni di ritardi nel costruire infrastrutture pubbliche non hanno fatto altro che allontanarci dalla città capoluogo, non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente e umanamente, quello che succede a Cuneo, a volte, ci sfiora, tutte le altre nemmeno quello.

Anche la toponomastica ci viene in soccorso in questo caso. Priocca d’Alba confina con Castellinaldo d’Alba che confina con Vezza d’Alba, con Piobesi d’Alba e Corneliano d’Alba passando per Baldissero d’Alba, Santa Vittoria d’Alba e arrivare via via fino a Ceresole d’Alba che sta a 10 minuti di auto da Carmagnola e a 29 minuti da Alba, ma che è fieramente di Alba e mai si sognerebbe di chiamarsi Ceresole di Carmagnola.

Alba è ovunque, è un marchio che portiamo fuori, ma soprattutto che sentiamo dentro, è essere parte di una comunità ed è talmente elitario da essere profondamente inclusivo, perché non è necessario essere nati ad Alba, anzi, spesso gli albesi che hanno cambiato la storia della città arrivavano dalla periferia partendo dall’imperatore Publio Elvio Pertinace passando per il doglianese Michele Ferrero come esempio su tutti o citando il sindaco per più anni alla guida della città delle cento torri, il cortemiliese Tomaso Zanoletti.

Noi siamo questa “roba” qui. Noi a New York o a Pechino non siamo di vicino a Torino o vicino a Milano, noi oggi siamo di Alba perché sappiamo che a New York e Pechino magari Torino la conosceranno solamente perché abbinata a Juventus, mentre il tartufo bianco d’Alba lo conosceranno eccome, così come conosceranno la Nutella, il Barolo e il Barbaresco.

Questa “roba” qui, però, non è fatta solo di paillettes e lustrini. L’Albesità, anzi, si fonda e affonda nel fango e mai ringrazieremo abbastanza Beppe Fenoglio per aver spiegato magistralmente il concetto di Malora e avercelo instillato nel cuore e nell’anima. Noi veniamo da lì, da quel fango, dalla “Nita” o dalla “Paota” come dicono a Torino, possiamo avere i nostri vini e i nostri tartufi nei migliori ristoranti di New York, ma le radici sono piantate lì, sappiamo tutti dove siamo nati e dove non vogliamo tornare.

È la “Nita” che nel 1948 e nel 1994 ha sommerso tutto. Del 1948 ho letto, del 1994 invece ho un ricordo vivido. Avevo 12 anni e nelle prime due settimane di novembre di quell’anno ho scoperto cosa fosse l’albesità.

Io di Priocca, con casa sulla collina, lontano da fiumi e torrenti, dell’alluvione ho appreso solamente dalla televisione, ma dal 7 novembre 1994  con la mia famiglia e con tutte le famiglie di Priocca ho imbracciato scopettone e pala per spalare il fango nei dintorni di Alba. Personalmente operai con i miei genitori negli stabilimenti Mondo a Gallo d’Alba (c’è sempre Alba di mezzo).

In 10 giorni la Ferrero tornò a produrre e la Fenice rinacque dal fango. Io capii allora cosa significasse essere parte di una comunità.

Se ne è parlato molto durante la presentazione in un Teatro sociale gremito del monumentale volume “Alba una piccola grande città” di Tomaso Zanoletti, martedì 12 marzo.

Il concetto di “Albesità” è emerso più volte durante la serata e in settimana mi sono accorto altre due volte come non si tratti solamente di una parola vuota, ma di un vero e proprio modo di essere.

La prima: giovedì dopo la proclamazione di L’Aquila capitale della cultura 2026. Ad altre latitudini sarebbero volati gli stracci, ad Alba e dintorni, la “sconfitta” o, meglio, la “non vittoria” non ha fatto altro che compattare le truppe e serrare i ranghi. Nascerà una Fondazione apposita, tutti faranno quadrato e Alba e Bra saranno comunque capitali della cultura. Avvenne già nel 2012 dopo una prima bocciatura da parte dell’Unesco, dieci anni dopo sappiamo quanto sia stato importante credere in quel riconoscimento che ha cambiato in meglio le Langhe e il Roero.

La seconda: anche se cerchiamo di non pensarci e di non parlarne è innegabile che, mentre, a Cuneo si parli di un modello Alba, sulle sponde del Tanaro si stia vivendo un vero e proprio psicodramma industriale ed economico con la crisi di Egea. Non nascondiamoci dietro un dito, Egea era un modello, giusto o sbagliato, ma comunque un modello molto albese di una azienda “Glocal” che provava a sfidare i grandi player dell’energia. Una sfida forse persa ancora prima di cominciare, la crisi Egea ha messo e mette in crisi un intero sistema e ha rischiato di portare nel baratro decine di aziende collegate e di mettere a rischio oltre mille posti di lavoro.

La “Paota” in questo caso è a un passo, e cosa è successo? Cosa succederà? Che ancora una volta prevarrà il senso di responsabilità e tutti andranno nella direzione di un salvataggio che definire miracoloso è poco, alla albese, senza urlare troppo, senza calcare la mano, con quell’understatement che è talmente albese come concetto da sembrare incredibile che sia stato coniato da un anglosassone.

Perché noi siamo così, divisi, divisivi, diversi, solitari, chiusi, ma pronti a remare tutti nella stessa direzione ogni volta che bisogna portare in alto il nome di Alba, delle Langhe e del Roero.

L’Albesità ha rischiato ancora una volta di naufragare, ma anche questa volta rinascerà dal Fango e non dalla cenere, come la fenice, mentre gli altri continuano a invidiarci. E sbagliano, sbagliate tutti perché, quando si ha un compagno di banco più bravo i più furbi cercano di copiare, i più stupidi lo dileggiano e cercano di danneggiarlo.

Dal modello albese bisognerebbe cercare di imparare, magari correggendo i difetti, che, come abbiamo visto ci sono, ben consci che l’albesità sia intrisa dei passi silenziosi di Michele Ferrero e non della cera delle ali dell’Icaro che pensando di poter arrivare al sole perdendo l’umiltà si è ritrovato nella “Nita”.

 

Marcello Pasquero

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