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Cronaca | 31 gennaio 2022, 16:15

Veleni al marito in ospedale: processo d’appello alla 53enne braidese

In primo grado la donna era stata condannata a 8 anni di reclusione. Il suo difensore: "Sostanze incapaci di uccidere e manca il movente". Dopo la sua scarcerazione la coppia è tornata a vivere insieme

L'ex ospedale "Santo Spirito" di Bra: l'uomo era ricoverato per una polmonite quando i Carabinieri dei Nas verificano i fatti ora oggetto di giudizio (Ph. Barbara Guazzone)

L'ex ospedale "Santo Spirito" di Bra: l'uomo era ricoverato per una polmonite quando i Carabinieri dei Nas verificano i fatti ora oggetto di giudizio (Ph. Barbara Guazzone)

Dopo la condanna subita in primo grado, è stato fissato per il prossimo 17 febbraio il processo d’appello nei confronti di Laura Davico, la 53enne braidese che nel dicembre 2018 era stata arrestata con l’accusa di aver attentato alla vita del marito, il 59enne Domenico Dogliani, cui avrebbe somministrato sostanze venefiche tra le quali un potente topicida mentre l’uomo era ricoverato all’ospedale "Santo Spirito" di Bra per una polmonite.

Nel maggio scorso la donna era stata condannata dal Tribunale di Asti (giudice Francesca Di Naro) a una pena di 8 anni di reclusione, giudicandola colpevole di tentato omicidio volontario con le aggravanti dell’aver commesso il fatto nei confronti del coniuge e dell'averlo fatto mediante il ricorso a veleni, perché – come recitava il capo d’imputazione – "compiva atti idonei a cagionare la morte del marito non riuscendo nell’intento per ragioni non dipendenti dalla sua volontà (…)". Ora la donna dovrà rispondere dello stesso reato di fronte alla prima sezione della Corte d’Appello di Torino.  

"Ribadiremo – spiega il difensore della donna, l’avvocato albese Roberto Ponzio – le diverse argomentazioni già evidenziate nel processo di primo grado. Ovvero che, secondo quanto verificato dai nostri consulenti, la quantità di sostanze somministrate al marito non era idonea a uccidere: una facoltà che, appunto, deve essere provata in concreto, e non in termini astratti.
Le manifestazioni cliniche verificate sul paziente hanno invece escluso tale capacità: non ci sono stati effetti sull’organismo dell’uomo, né tanto meno manifestazioni pericolose per la sua vita".

"Bisogna poi tenere in debito conto la situazione ambientale – prosegue il legale –, con un degente in ospedale, sottoposto a costante monitoraggio dei valori clinici, circostanza che escludeva un pericolo per la sua vita. Un altro profilo riguarda poi il fatto che queste sostanze erano state acquistate in farmacie locali con tanto di annotazione del codice fiscale da parte della mia cliente: circostanza che, ancora una volta, esclude un qualsivoglia progetto omicidiario. Ultimo ma non ultimo, saremmo di fronte a un delitto privo di movente: quale ragione avrebbe avuto la mia cliente per uccidere il marito? Abbiamo provato che non era mossa da odio, invidia, vendetta, cupidigia, crudeltà o dall’incasso di una polizza assicurativa. Anzi, eravamo di fronte a una famiglia che era unita prima dei fatti e che lo è ritornata dopo, visto che la mia cliente è poi tornata a vivere col marito all’indomani della sua scarcerazione, e che non risultano screzi nella coppia. Si è trattato forse di una condotta forse improvvida, superficiale, ma non criminale".

Ezio Massucco

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