“Vice” (Vice – L’uomo nell’ombra) è un film di produzione statunitense del 2018, scritto e diretto da Adam McKay. La pellicola ripercorre la vita privata e la carriera politica di Dick Chaney, da molti definito l’eminenza grigia dietro diversi dei presidente statunitensi degli ultimi 50 anni, dai suoi inizi fino all’ascesa come vicepresidente di George W. Bush alle elezioni presidenziali del 2000. Un falso epilogo segna la fine della prima metà del film, con un Chaney amministratore della Halliburton che si ritira a vita privata: in realtà, subito dopo, inizierà il suo sostegno al giovane Bush.
Chiunque fosse vivo allora ha un ricordo ben preciso di dove si trovasse e di cosa stesse facendo nell’esatto istante in cui è venuto a sapere della caduta delle Twin Towers. È inevitabile: l’11 settembre 2001 è e sarà sempre una data indimenticabile, probabilmente anche più di quella di qualunque altro evento della storia recente.
Oggi ricorre il ventesimo anniversario e, sono sicuro di non essere l’unico, mi risulta difficile credere che siano davvero passati tutti questi anni. Quando ho ascoltato, alla radio, del disastro mi trovavo in una palestra di Cuneo per alcuni esercizi correttivi della postura della schiena: vent’anni dopo, di cui diversi passati per una ragione o per l’altra davanti allo schermo di un computer, è come se quegli esercizi non li avessi mai fatti, è una parte della mia vita che, consciamente, dimentico. Ma quel singolo giorno lo ricorderò per sempre.
Le conseguenze di quell’11 settembre 2001 hanno impattato profondamente sul mondo per come lo conosciamo, ed evidentemente – visto ciò che è accaduto e sta succedendo in Afghanistan – continueranno a farlo anche a lungo. E per questo il cinema e il mondo dell’arte in generale hanno trattato in lungo e in largo la questione, da tutti i lati possibili e immaginabili; una di queste iterazioni è senza dubbio “Vice”, l’ultimo film in ordine cronologico di quel piccolo genio della comicità demenziale americana che è Adam McKay.
Che qui, però, si confronta con un genere nettamente estraneo a quelli che definiscono la maggior parte della sua produzione, ovvero il biopic drammatico, “a là The Wolf of Wallstreet” si potrebbe dire (sbagliando, secondo me). La pellicola traccia un profilo spietato di Dick Chaney, un uomo che in tutto ciò che è stato dell’America e del mondo dopo quell’11 settembre ha davvero molto a che fare: un lupo tra le pecore alla costante ricerca di cibo per sfamare il proprio inesauribile appetito, e che anche quando può sembrare sconfitto in realtà trova sempre il modo per sopravvivere.
La storia americana – specie quella cinematografica – vede nel “sopravvissuto” una figura fondamentale, un carattere sfruttato in lungo e in largo. Ma sopravvivere è natura dell’uomo, che con il modo con cui quell’uomo decide di sfruttare la propria vita una volta sopravvissuto ha davvero poco a che fare; ecco che tra gli “eroi” americani spicca anche un uomo come Chaney, per la cui interpretazione il camaleontico Christian Bale ha addirittura detto di essersi ispirato a Satana in persona (con tanto di profondo dispiacere di Chaney stesso e della sua famiglia).
È ovvio insomma che tra i sopravvissuti all’11 settembre 2001, direttamente o indirettamente, ci siamo anche tutti noi. Siamo tutti passati da quella singola eventualità storica, in un modo o in un altro, così come stiamo tutti passando attraverso quella della pandemia: la Storia e i suoi attori vengono messe in scena costantemente davanti ai nostri occhi, che siamo sia pubblico pagante che comparse di sottofondo.
Non abbiamo spazio reale in questa commedia, e allo stesso tempo abbiamo il ruolo più importante di tutti. Quello di ricordarne gli atti, lo svolgimento, i rapporti tra i personaggi e quelli di causa ed effetto. Ma non solo per celebrarne gli anniversari: anche per imparare a guardarci in faccia tra di noi, e comprenderci.
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